Bagnoli Irpino 1656 – Sono passati tre secoli e mezzo, sembra oggi

di Giovanni Marino

“Leggere” è come vendemmiare, “studiare” è come fare il vino. Su FB entrambi diventano “surrogati”. A volte ci vogliono ore di studio per comprendere un fatto storico e solo se tale comprensione si riverbera sul presente acquista una sua vitalità. Altrimenti si cade nell’erudizione fine a se stessa.

Da anni coltivo questa pia illusione: imparare dalla storia. Forse è più facile superare il “pessimismo cosmico” che quello “storico”. In questi drammatici mesi mi è sembrato che la ruota dei comportamenti collettivi giri da secoli sempre allo stesso modo.

Sono passati tre secoli e mezzo ma sembra oggi. La peste del 1656 si propagò dalla Sardegna nel Regno di Napoli in modo devastante: alla fine si contarono 500.000 morti. Si è calcolato che in molti paesi arrivarono al 60% della popolazione residente. La sottovalutazione iniziale del rischio e comportamenti collettivi anomali portarono alla catastrofe. Fu permessa la circolazione delle persone e non si prese alcun provvedimento a proposito.

Cosi due napoletani padre e figlio, per sfuggire al contagio, a giugno trovarono rifugio a Bagnoli Irpino, dove non si era registrato alcun caso di contagio. Dopo qualche giorno il figlio morì di peste e fece così impressione la sua morte che nessuno volle avvicinarsi per somministrare i sacramenti. Dopo pochi giorni anche il padre subì la stessa sorte però sacramentato.

Nelle stesso mese, molti Bagnolesi fuori per commercio rientrarono in paese. Ad agosto i morti furono 18, e il 28 si registrarono tre decessi. Ci furono proteste per aver permesso rientro e circolazione senza controlli: ci fu chi si lamentò per il dilettantismo dimostrato dagli amministratori, mettendo a disposizione presunte capacità all’altezza della situazione.

La cittadinanza terrorizzata diede fiducia ai novelli salvatori della patria. I vecchi amministratori lasciarono il campo libero. I nuovi scelsero subito il luogo dove far sorgere il lazzaretto e dove seppellire i morti vietando la sepoltura in chiesa: attrezzare come lazzaretto una casa colonica di proprietà dei Domenicani e un luogo lì vicino per la sepoltura. I monaci subito si opposero e minacciarono fuoco e fiamme. Il nuovo sindaco fece orecchie da mercante alle loro proteste e ordinò di seppellire i tre appestati del 28 agosto nel luogo prescelto.

Asserragliati nel convento, i domenicani mandarono incontro ai beccamorti alcuni loro sgherri che intimarono loro con la forza di tornare indietro. Questi ubbidirono e scaricarono i tre cadaveri nella pubblica piazza. Tale spettacolo esasperò gli animi e in molti armatisi marciarono contro il convento, sparando archibugiate e tentando di sfondare le porte.

L’arrivo tempestivo del Governatore e del Capitano del Territorio con uomini armati evitò il peggio e i monaci dovettero fare buon viso a cattivo gioco: fecero costruire il lazzaretto e seppellire i cadaveri, accontentandosi della promessa che finita la pestilenza i morti sarebbero stati riesumati.

Ma ormai la peste si era propagata ovunque. A settembre si contarono 99 morti. La gente era terrorizzata e si rivolse alla religione: processioni e preghiere collettive ogni ora del giorno. Gli “assembramenti” portarono alla catastrofe: ottobre 280 morti, novembre 358 morti.

Solo a dicembre, per grazia ricevuta dalla Madonna Immacolata, furono 144. A pestilenza cessata i morti furono 1.089 su 3500 abitanti. Durante la fase acuta della pestilenza, non si faceva in tempo a seppellire i morti: la paura di restare insepolti preda dei cani divenne angoscia collettiva. Ci fu pure chi appena avvertiva i sintomi del male si muniva dei conforti religiosi e si recava nel luogo scelto dal comune per le sepoltura. Scavata una fossa con le mani si sedeva sull’orlo, aspettando la morte ed una mano pietosa che lo avesse spinto nella fossa e coperto con il terreno scavato.

In compenso nessuno morì senza sacramento: il clero usava una pertica per la loro somministrazione. I notai pure ebbero molto da fare per raccogliere le ultime volontà: appoggiavano una scala al muro della casa del moribondo e attraverso una finestra ascoltavano e dettavano a chi stava sotto le ultime volontà.

 Cosi andava il mondo nel 1656 ed oggi?

Tratto da “La storia di Nusco raccontata da Giovanni Marino”

(da Fuori dalla Rete, Giugno 2020, anno XIV, n. 3)


(stampe di bagnoli irpino fine ‘800)

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