Cari piccoli borghi d’Italia, se non fate rete le città vi divoreranno

di Franco Arminio (La Repubblica)

Non si è mai vista una protesta dei sindaci dei paesi italiani che si stanno drammaticamente spopolando. Eppure, oltre alla lotta di classe, esiste anche la lotta tra territori.


I paesi non fanno rete. Non si è mai vista una protesta dei sindaci dei paesi italiani che si stanno drammaticamente spopolando. Ogni paese cerca la sua via, il suo sostegno, quando lo cerca, quando lo trova.
I forti si fanno buona compagnia. I deboli si dividono e si fanno la guerra. In Italia c’è un conflitto non dichiarato tra il margine e il centro. Le Regioni forti vorrebbero tenere più soldi per gli affari loro e le Regioni deboli stentano a reagire.

Un artista di Roma o di Milano ha comunque più vita facile di un’artista che vive in un piccolo paese. In certi ambienti ci sono alleanze implicite che non ci sono in altri ambienti. Io facevo fatica a fare arrivare i miei pezzi sulle pagine dei giornali locali della mia provincia. Anche tra il mio paese ed Avellino c’era un conflitto centro-periferia. Devi essere davvero molto bravo per vincere la resistenza e poi la devi vincere ogni volta, perché la resistenza non finisce mai. Il paese non ti sostiene. Il paese non compra i tuoi libri. Non ti chiede di candidarti a sindaco nel caso gli viene il sospetto che potresti essere la persona giusta.

Chi vive nelle grandi città può non avere appoggi ma è difficile che abbia delle ostilità. Assenza di vento. Invece chi si muove nel paese ha sempre un vento contrario. Se il vento è leggero, come nel caso del giavellotto, magari ti aiuta anche ad andare più lontano. Altrimenti ti fermi e inacidisci sul posto. Conosco giovani musicisti bravissimi che non riescono ad uscire fuori dal muro del proprio territori. E così giovani attori e artisti. Quando ti proponi all’attenzione del centro sei sempre solo. E sei sospettoso, a volte la sfiducia finisce per tradire il tuo talento. Ho visto vite promettenti aggrovigliarsi nell’impazienza di risposte che non arrivano.
Il margine chiede e il centro non risponde. Magari accade qualcosa di simile tra Roma e New York. In questo caso il margine diventa Roma, la capitale si fa piccolo borgo.

Questa cosa è palese in televisione. La televisione racconta il margine sempre col filtro della miseria o della delinquenza o del residuo bucolico. Raro che si riesca a vedere un resoconto asciutto del margine, è come se i paesi non avessero diritto a essere raccontati per come sono, per come diventano giorno per giorno.

Il centro nemmeno se ne accorge dei suoi privilegi. E il margine perde di vista le sue mancanze. Sei senza ospedali e ti sembra normale, hai un medico rude e ignorante e ti sembra normale. Il professore è accidioso e ti sembra normale. Il sindaco vive altrove e nessuno glielo fa notare.

Il centro quando ti accoglie lo fa sempre un poco distrattamente, come se fosse impegnato in altro. Non sei della tribù, direbbe Caproni. In qualche modo i salotti esistono ancora, esistono delle vicinanze non dichiarate. Chi viene dal margine si muove sempre da solo. E se il centro un poco ti accoglie, aumenta l’invidia di chi dovrebbe sostenerti. Io da quando vendo un po’ di libri di poesie ho visto sparire quasi tutti i miei amici poeti, uno alla volta, implacabilmente.

Ecco, forse è il momento di aggiungere alla vecchia e mai risolta questione meridionale anche la questione del margine (che non è solamente al Sud). È la questione dei professori universitari che partoriscono figli professori e dei notai e dei banchieri e di tutte le altre figure del centro che continuano a vincere la loro lotta di classe con il margine. La lotta di classe non è solo tra ceti, ma anche fra territori. Padova non ne vuole sapere di Crotone, Bolzano non ha neppure il sospetto che sta nella stessa nazione di Foggia. Eppure di queste cose bisogna discutere. Ora non abbiamo una classe politica attrezzata a gestire le diversità del paese. Prima del voto sardo neppure lo sapevano che in Italia ancora esistono i pastori. Come non sanno che esistono paesi sguarniti di ogni servizio e dove i giovani di talento devono solo scegliere tra l’emigrazione o l’esilio a casa propria. I paesi non fanno rete, non sono mai riusciti a federare le loro ferite. Dovrebbero cominciare a farlo se non vogliono perdere i loro ragazzi.

Franco Arminio (La Repubblica)


Di borghi abbandonati e possibile rinascita

di Stefano Carluccio (Irpiniapost.it)

Sono anni, decenni ormai, che soprattutto al Sud, ma anche nelle aree interne e montane del resto d’Italia, si fa un gran parlare di spopolamento, emigrazione, di paesi fantasma e abbandono. Sono temi sempre più caldi, temi su cui migliaia di sindaci ed amministratori locali, ma anche centinaia di migliaia di cittadini si arrovellano quotidianamente in cerca di soluzioni che, finora, non sono state molto efficaci. Sarà perchè i problemi sono diversi e si intersecano e si complicano a vicenda, sarà perchè la classe política e dirigente a livello nazionale e locale non è all’altezza di questioni cosi complesse, tuttavia, il risultato è sotto gli occhi di tutti. Città di provincia che lentamente diventano grandi paesi, paesi che diventano borghi e borghi che vengono completamente abbandonati e lasciati all’incuria. Sembra un destino già segnato ed i numeri che vengono continuamente aggiornati parlano chiaro. Nei prossimi anni milioni di cittadini del Meridione d’Italia, ma non solo, si trasferiranno nelle grandi città del Nord, in primis Milano, ma anche e soprattutto all’estero: Europa ma anche Asia ed America.

Sono numeri che se verranno confermati, e tutto ad oggi fa presagire che lo saranno, segneranno la morte di una parte fondamentale d’Italia e d’Europa. Non tanto per il peso economico, quello è abbastanza irrilevante, ma soprattutto per la storia, le tradizioni, la cultura che il Sud Italia ha creato e diffuso nel mondo intero. Sarà un patrimonio immenso, da tutti i punti di vista ed in tutti i campi, che scomparirà. E non sarà il piccolo paese di 300 persone in Irpinia che ne soffrirà di più, o i giovani che dimenticheranno le loro radici e le origini della propria famiglia, ma sarà l’italia, l’Europa ed il mondo a subirne le maggiori conseguenze. Non subito, certo, ma nel medio e lungo termine gli effetti saranno devastanti. Perchè la morte del Sud e, in contemporanea, dei tanti altri Sud del mondo, rappresenterà una perdita di proporzioni catastrofiche per la biodiversità, per la ricchezza e la diversità culturale, per la varietà enogastronomica. Tutto il mondo finirà per assomigliare ad un gigantesco McDonald in cui, al netto di alcune sicuramente pregevoli differenziazioni locali, si potrà mangiare ovunque lo stesso cibo, comprare ovunque gli stessi vestiti, assistere ovunque agli stessi spettacoli.

Perdendo, in maniera drammatica, quella che è la bellezza vera del nostro pianeta e delle nostre società umane: tutte le nostre differenze e le nostre infinitesimali sfaccettature. Ecco, questo è il futuro che ci aspetta ma che, fortunatamente, non si è ancora realizzato. Come diceva un saggio: il modo migliore per predire il futuro, è inventarlo. E quindi dobbiamo essere noi bravi ad inventare il nostro futuro, a progettarlo secondo i nostri sogni e le nostre necessità. A decidere, oggi, di non voler subire passivamente tutto quello che il futuro rappresenterà ma di scegliere come vogliamo che siano i decenni a venire e  di organizzarci, bene, per far si che ciò avvenga. A tal proposito, ed è questo il motivo che mi ha spinto ha scrivere questa riflessione, ho notato che ultimamente, in diversi paesi d’Italia una volta abbandonati o semi spopolati, è tornata la vita. In diversi paesi che sembravano ormai cancellati definitivamente dalle mappe d’Italia sono arrivati i turisti, molti turisti, prima italiani e poi stranieri, a visitare le strade deserte, a soggiornare in case solo recentemente adattate al soggiorno di ospiti umani, a comprare quelle stesse case e a consumare i prodotti tipici che quel lembo di itálico terreno può offrire.

Com’è stato possibile? E’ forse un miracolo destinato a ripetersi altrove, magari nella nostra Irpinia? Forse. Si tratta di un modo alquanto intelligentedi utilizzare al meglio quello che abbiamo e di renderlo più appetibile sul mercato. Nei casi emblematici di Calcio, in provincia di Bergamo, e soprattutto di Valogno, frazione di Sessa Aurunca, in provincia di Caserta, quello che hanno fatto è stato inviduare ed analizzare le criticità, in entrambi i casi lo spopolamento e l’emigrazione, e valorizzare quello che avevano a loro disposizione. Tante case abbandonate, neanche in ottime condizioni, che per il comune e per il paese era come non averle. Piuttosto erano pericolose, fatiscenti, degradavano l’ambiente circostante perchè lasciate al loro destino e prive della necessaria manutenzione. Da tutte queste criticità e da questi costi potenziali che il comune, o altri enti, prima o poi avrebbero dovuto sostenere per una stabilità minima degli edifici, a Calcio, a Valogno, cosi come in altri paesi italiani tra cui Bonito, in Irpinia, si è deciso di recuperare quelle case abbandonate da molti anni e dargli una nuova vita.

Semplicemente mettendole in sicurezza e lasciandole alle cure di artisti nazionali ed internazionali per trasformarle da case vuote e inutili a oggetti d’arte fotografati e visitati da migliaia e migliaia di turisti ogni anno. I murales, che nella maggior parte dei paesi seguono un fil rouge, un tema comune, che può essere la fiaba a Valogno come le tradizioni locali a Calcio, sono serviti per creare nuova bellezza in posti che si avviavano inesorabilmente verso lo spopolamento o erano già completamente abbandonati. C’è stata sicuramente la volontà delle amministrazioni locali, ma in quasi tutti i casi la scintilla, l’idea originaria, è partita da associazioni locali che sono state create allo scopo di far diventare ancora più bello il proprio paese per permettergli di rinascere. Da lì in poi, una volta ultimati i murales e gli oggetti artistici disseminati tra le viuzze del centro storico e sui muri e le pareti delle case abbandonate, il passaparola ed i social media hanno fatto il resto. Quei piccoli borghi, quei paesi silenziosi sono diventati protagonisti di articoli su riviste nazionali ed internazionali, sono cominciati ad arrivare i primi curiosi dai paesi e dalle città vicine, a scoprire e riscoprire luoghi cosi attigui e cosi sconosciuti, poi dal resto d’Italia ed infine dal mondo.

Tutta questa attenzione e tutte queste persone si sono prima riversate sui murales in sè, ma poi, ovviamente, le tradizioni, la cultura e l’enogastronomia dei paesi e dei territori dove si trovano sono diventati protagonisti indiscussi. Creando cosi nel giro di pochi anni un turismo lento e consapevole, attento, un indotto economico importante che ha permesso di ricostruire e di riaprire botteghe, attività commerciali ed esperienziali, cosi come il nuovo turismo che si sta sempre più affermando. I visitatori ed i turisti hanno cominciato ad apprezzare sempre di più i luoghi tanto da comprare casa, si sono trasferiti a vivere lì  e contribuiscono alle attività e alle iniziative che nel paese stanno nascendo e prosperando. Ecco, questa è davvero una bella storia di restanza, come direbbe Vinicio Capossela. Una storia che può essere applicata, con le varianti del caso, anche ai nostri territori, alla nostra amata Irpinia. Una terra di emigrazione e di spopolamento, di paesi fantasma e borghi abbandonati che aspetta da troppi anni una soluzione a tutti i suoi problemi.

Stefano Carluccio (Irpiniapost.it)

fonte La Repubblica
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