Content

di Martin Di Lucia

Negli ultimi 15 anni una nuova parola è entrata a far parte del vocabolario comune; tecnicamente esisteva già, ma con l’avvento di Internet ha trovato un nuovo significato, un nuovo ‘stato mentale’. La parola in questione è contenuto. Qualsiasi attività creativa è ormai da tempo ampiamente etichettata come “contenuto”. Migliaia di persone negli ultimi tempi (pensiamo anche solo durante la pandemia) hanno potuto inventarsi un lavoro producendo e pubblicando, in modo del tutto autonomo, lavori creativi online, etichettati quasi sempre come ‘contenuti’. Non sono mai stato un grande fan di questa parola e mi rendo conto che potrebbe sembrare una contraddizione, dopo tutto non sono io stesso un creatore di contenuti? Non creo letteralmente contenuti?

Si, tecnicamente creo contenuti, il che mi rende tecnicamente un creatore di contenuti. Ma non mi piace dirlo. Ne detesto il suono e ciò che esso rappresenta. Penso piuttosto che il contenuto sia uno stato d’animo, che può avere un effetto culturale molto ampio e, quando si tratta di Arte o Cinema, e delle industrie che vi ruotano intorno, credo che l’abbraccio diffuso di questa parola debba significare davvero qualcosa. Il sostantivo “contenuto” è generalmente utilizzato per indicare ciò che si trova all’interno di un contenitore. Quando si parla di un’opera d’arte, il contenuto si riferisce a ciò che l’opera è, mentre la forma è il modo in cui viene presentata. Nel 1964 Marshall McLuhan descrisse, nel primo capitolo del suo libro “Capire i Media – Le Estensioni dell’Uomo”, l’impatto che i mezzi elettronici (televisione, cinema e radio) avevano avuto sul modo in cui l’arte e le informazioni venivano create ed elaborate. McLuhan si riferiva alla televisione come ad un ambiente, un contenitore appunto, all’interno del quale si trovava ciò che egli definiva contenuto. “Il contenuto di qualsiasi medium è sempre un altro medium. Il contenuto della scrittura è il discorso, così come la parola scritta è il contenuto della stampa, e la stampa è il contenuto del telegrafo”.

A metà degli anni ’90, l’uso di Internet era in rapida crescita e la navigazione sul World Wide Web iniziava a far parte della vita quotidiana di molte persone. Nel 1996 Bill Gates scrisse un famoso saggio intitolato “Content is King” (Il Contenuto è il Re): “Il contenuto è il settore in cui mi aspetto che si facciano i veri soldi su Internet”. Gates continua scrivendo che con la crescita e l’aumento dell’utilizzo di Internet sarebbe comparso un nuovo mercato in cui sia gli individui che le aziende sarebbero state in grado di fare soldi producendo contenuti per Internet.” Utilizzando le definizioni di McLuhan, Internet è il contenitore e il contenuto è ciò che si trova in Internet. Nel suo saggio Gates stesso lo ammette: “La definizione di contenuto diventa molto ampia, ad esempio il software per computer è una forma di contenuto”. Anche le notizie si qualificano come contenuti; quindi, come dice Gates: “Giochi, Intrattenimento, Sport, Programmazione, pubblicità e community online saranno dedicati ai principali interessi”.

Quindi, letteralmente, tutto ciò che si trova su Internet è contenuto; non solo il lavoro creativo, ma ogni singola cosa che occupa uno spazio virtuale. Gates faceva riferimento all’idea che i contenuti originali sarebbero stati creati sia da individui che da aziende, e che un giorno le persone avrebbero pagato per averli, financo abbonandosi ai fornitori di tali contenuti. Quasi un decennio dopo, nel 2004, il Pew Internet and American Life Project ha rafforzato le idee di Gates: “La creazione di contenuti nella nostra definizione include la creazione di un sito web, la pubblicazione di materiale su un altro sito web per lavoro, per la famiglia o per un’altra organizzazione, la pubblicazione di materiale su un diario personale o sul blog online di un’altra persona. Include anche la pubblicazione di foto, opere d’arte, file audio e video sul World Wide Web, in una chat room o in un gruppo di discussione o di notizie”. Sebbene internet sia diventato una piattaforma dove pubblicare e distribuire opere e lavori creativi, non era certo questo lo scopo per cui era stato progettato.

La cosa importante da ricordare è che internet è stato costruito e plasmato da tecnici e uomini d’affari e che quindi sono stati loro a crearne le terminologie. È curioso notare come il saggio di Bill Gates non menziona una sola volta l’arte, ma descrive il potenziale dei contenuti interamente in termini commerciali. Ricordate, la prima riga è letteralmente “il contenuto è il mezzo con cui mi aspetto si faranno i veri soldi su internet”.

Durante i primi decenni di internet la parola contenuto era per lo più un termine di settore, usato dai dirigenti delle aziende. Poi nel 2005 è arrivata una piattaforma chiamata YouTube, costruita su quello che è diventato noto come “contenuto generato dagli utenti”, ovvero tutti i contenuti del sito erano creati e caricati da individui indipendenti e non retribuiti. Come tutti sappiamo, YouTube sarebbe diventato di lì a poco il secondo sito web più visitato al mondo dopo Google, che ne è divenuto in seguito proprietario. Sebbene YouTube sia una piattaforma basata su un unico mezzo, il video, nel tempo ha iniziato a sostituire la parola ‘video’ con ‘contenuto’. Sulla pagina di YouTube Studio la scheda dei video è stata rinominata in “Contenuti”; ci hanno detto insomma che non eravamo creatori di video, ma di contenuti. In seguito, e parallelamente a YouTube, sono nate altre piattaforme, dove i creatori hanno potuto costruirsi una carriera, come Instagram ad esempio; nuovi mezzi quindi per raccontare storie, nuovi contenitori da riempire con contenuti. Col tempo, quando YouTube ha iniziato a eliminare gradualmente la parola video sostituendola con contenuto, anche le idee più ampie del suo messaggio hanno iniziato a cambiare. Si è iniziato a dare priorità al flusso costante di contenuti rispetto ai singoli video. Un singolo video non conta, ciò che conta è l’accumulo complessivo di video. La loro messaggistica ufficiale parla di pianificare tutti i contenuti futuri, di guardare indietro a tutti i contenuti realizzati l’anno scorso, di incoraggiare i creatori a creare di più e a pubblicare più spesso.

Circa dieci anni fa YouTube ha modificato il suo algoritmo per dare priorità al tempo di visione rispetto alle singole visualizzazioni, quindi i creatori hanno iniziato a realizzare video più lunghi. La filosofia prevalente è “di più”. Questo è oggi l’ambiente in cui la cultura della frenesia ci urla costantemente di creare sempre più contenuti, non importa di cosa si tratti, purché si pubblichi tanto e spesso. Non è il singolo pezzo, ma l’ondata travolgente di contenuti lanciati, che porterà al successo. La crescita del business risiede ora nella costanza con cui si producono contenuti su internet. L’idea della riproduzione automatica su YouTube, proprio come lo scroll infinito su Twitter, Facebook e Instagram, è quella di mantenere gli utenti sulla piattaforma per sempre, consumando un feed infinito di contenuti. Non è necessario che i contenuti facciano grande impressione, basta che continuiamo a consumarli. Avete mai provato a prendervi un momento per riflettere su qualcosa che avete appena visto su Netflix, solo per avere i titoli di coda immediatamente troncati in favore del ‘Cosa guardare dopo’?

Il contenuto su internet è ‘tutto’, e quindi appiattisce tutto, rendendo tutto uguale. Così un video di filosofia o un saggio sull’arte risultano la stessa cosa di un tweet postato sull’acquisto di un nuovo paio di scarpe. Un cortometraggio d’autore su Vimeo è la stessa cosa dell’influencer su Instagram che fa la marchetta per le bevande energetiche che lo sponsorizzano. Se una cosa è un contenuto, allora tutto lo è. Come dire che un romanzo è la stessa cosa di una telefonata, poiché sono entrambi una forma di comunicazione. Ma sappiamo benissimo che non lo sono e non dovremmo trattarli allo stesso modo. Ma per i dirigenti è tutto uguale. A loro non importa quale che sia il contenuto sulle loro piattaforme, purché gli utenti vi clicchino sopra e loro ci facciano girare gli annunci pubblicitari, generando entrate per gli azionisti felici e contenti. Su YouTube sono i creatori a fare il lavoro e le persone che gestiscono la piattaforma li incoraggiano a farne sempre di più, così che la gente resti più a lungo sulla loro piattaforma.

Questa nuova mentalità nella creazione dei contenuti scoraggia la sperimentazione; il modo in cui piattaforme come YouTube funzionano porta i creators a realizzare solo cose che funzionano: una formula o un certo tipo di video, e ripeterla per sempre. Se si sperimenta qualcosa di diverso, viene loro detto che il pubblico li abbandonerà. La stessa cosa accade ormai anche nel mondo del cinema: una volta che qualcosa ha successo, i dirigenti cercheranno di ricreare quella cosa in continuazione, ma senza ricreare le circostanze che l’hanno resa unica. In un panel al Festival di Cannes, Guillermo del Toro ha affrontato proprio questo argomento: “Ci sono due linguaggi che sono entrati nel nostro lessico e sono orribili, ‘contenuto’ e ‘canale di distribuzione’. Qualunque cosa siano, non descrivono né l’arte né il cinema, perché rimandano all’impermanenza di qualcosa che deve continuare a muoversi “.

McLuhan diceva che il mezzo è il messaggio, e se il mezzo è internet, il messaggio che ricevo è che il contenuto è usa e getta. Non è vera arte. Su internet non sei un artista, non sei un regista, sei un creatore di contenuti. Non pretendo che qualcuno chiami i miei video arte; ci sono molti creatori che non hanno problemi a chiamare il loro lavoro contenuto, ma quello che fanno è pensato per essere consumato in modo completamente diverso da quello che faccio io. L’etichetta di contenuto ha anche a che fare con il modo in cui sperimentiamo qualcosa. Nel 2013 Netflix, azienda la cui attività si basava principalmente sul noleggio di DVD per corrispondenza, ha iniziato a produrre i propri programmi televisivi e, nel corso degli anni, è diventata uno dei più grandi Studios di Hollywood, in concorrenza con Warner Bros e Disney. Il suo nuovo modello di streaming su Internet ha rivoluzionato il settore. Immediatamente quasi tutti gli Studios hanno seguito l’esempio di Netflix, lanciando i propri servizi in streaming e adottando anche il suo linguaggio. Il cofondatore Reed Hastings proveniva dal mondo dello sviluppo software, non da quello del cinema o della TV, quindi si è avvicinato a questa realtà come hanno fatto YouTube e Bill Gates prima di lui. Per le piattaforme il servizio di streaming è solo un altro contenitore da riempire di contenuti.

L’altro cofondatore di Netflix, Mark Randolph, ha dichiarato che quando stavano avviando l’azienda, prima di decidere per il mercato dei DVD a noleggio, avevano considerato l’idea di vendere shampoo e cibo per cani. Netflix si riferisce pubblicamente a tutto ciò che produce (che si tratti di un reality show di appuntamenti o del nuovo film di Martin Scorsese) come contenuto, ovvero materiale che riempie spazio sul loro servizio di streaming in abbonamento. Negli Stati Uniti il cinema e la televisione mainstream esistono quasi esclusivamente all’interno dei confini del capitalismo. Tutto è a scopo di lucro, non esistono fondi nazionali per registi come in altri paesi, e le sovvenzioni statali vanno per lo più a beneficio, neanche a dirlo, dei grandi Studios. Un tempo con la TV la gente doveva sintonizzarsi a una certa ora di un certo giorno per poter guardare uno specifico spettacolo e, naturalmente, più persone lo guardavano più la rete poteva far pagare alle aziende gli spazi pubblicitari. Ma con lo streaming i singoli film e spettacoli non contano più, la gente non paga per loro, paga per Netflix. Tutto ciò che conta è l’entità più grande, il marchio. Le singole opere sono state svalutate perché per Netflix, Disney o qualsiasi altra azienda, sono tutte uguali.

Ora, per essere chiari, il boom dello streaming ha portato alla creazione di molti film e programmi televisivi grandiosi, ma a causa del modo in cui vengono gestiti questi media nell’era dei contenuti, film di Bong Joon Ho o di Jane Campion o di Steven Soderbergh vengono caricati su una piattaforma insieme a mille altri nello stesso oceano dei contenuti. Sovente Netflix ha acquistato film acclamati ai festival per poi dargli un’uscita in streaming senza troppe cerimonie, dove è stato inghiottito dal mare magnum di contenuti e non se ne è più parlato. In un recente articolo del New Yorker, Lila Byoch, scrittrice che ha lavorato a serie di successo come Watchmen (2019) e The Leftovers (2014), ha dichiarato che ciò che gli streamer desiderano sono i contenuti su secondo schermo, in cui si può stare al telefono mentre il film è in onda. Il contenuto è diventato un termine per indicare tutte le immagini in movimento, concepito non più per l’esperienza in sala ma per la visione domestica, proprio come Amazon rispetto ai negozi tradizionali. Ciò ha finito per creare una situazione in cui tutto è presentato allo spettatore su un piano di parità che sembra democratico ma che non lo è. Se la visione successiva viene suggerita da algoritmi basati su ciò che hai già visto e i suggerimenti si basano solo su un argomento o un singolo genere, allora cosa resta all’arte nel cinema?

La mentalità del contenuto sta trascinando i media tradizionali in una gigantesca fossa dove tutto diventa una poltiglia omogenea, che aspetta solo di essere consumata e buttata via. Il contenuto è una parola da dirigenti e, se vogliamo essere estremi, è il linguaggio dell’oppressore.

Martin Di Lucia

(da Fuori dalla Rete Marzo 2024, anno XVIII, n. 1)

 

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