Due amici al bar Centrale

di Alfonso Nigro

Al disfacimento materiale si aggiunge quello morale. Si sa, con gli anni la salute se ne va, accetti tutto, anche il dolore fisico che testimonia la tua sopravvivenza e ti fa pensare: soffro quindi sono vivo. Ma risulta ancor più demoralizzante quando senti e vedi che nulla è più come prima e anche gli amici, coetanei o meno, uno alla volta, ti lasciano sempre più solo.

Allora ti chiedi quale gioco crudele ha stabilito che tu, e proprio tu, devi essere spettatore di questa carneficina, pur con la magra consolazione di qualche giorno o mese vissuto in più, laddove un tuo seppure inaspettato blackout sarebbe stata la più logica e giusta soluzione.

Diventa poi drammatico venire a conoscenza della scomparsa anche dei luoghi dell’anima che hai condiviso con i compagni e gli amici più cari. Proprio ieri, infatti, su PT 39 ho letto della chiusura del <Bar Centrale>. Ho vacillato. Pensare alla storia del bar, alla mia giovinezza a Bagnoli, mi hanno scosso come scariche elettriche di dolorosa nostalgia, in una ridda di malinconiche sensazioni ancestrali di quel mondo che non c’è più.

La storia del <Bar Centrale> iniziò quando Aniello Patrone re scardalanu a cavala rilevò il locale di Piazza L. di Capua, fino ad allora garage per il camion da trasporti di Caputo, quiddu re caravarara int’a la strettela re lu carpunu a lu vavutonu, padre del nostro Peppe.

Ancor prima era stato la sede del caffè/circolo di Preziuso lu scienziatu, dove i notabili paesani dell’epoca, con il bel tempo, indugiavano in conclave ai tavolini fuori del locale, gambe accavallate a mostrare il colore dei petalini, il borsalino, la catena dell’orologio a cipolla che adornava la cammesola sulla candida camicia con cravattino o farfalla e il bianco fazzolettino da taschino.

Da quell’osservatorio a 360°, seduti e impettiti, assistevano e commentavano con la discrezione del caso il passeggio festivo in piazza di uomini e donne del paese a braccetto, compiacendosi del saluto riverente loro rivolto da cumpari, cumparielli e cummarelle di passaggio davanti il locale.

Aniello, emigrato in Venezuela, con un folto gruppo di giovani paesani, operai nella costruzione di strade, case a Caracas, spesso condannati a vivere, nella laguna di Maracaibo o nelle paludi della Guyana, in baracche fatte di legno e foglie di banano, in compagnia di tafani, zanzare, rettili delle più varie specie e dimensioni e alligatori.

Il nostro dopo anni di sacrifici ritornò a casa con i risparmi necessari per intraprendere un’attività che lo ricompensasse con una vita migliore, pensando già alla gestione di un bar nel paese.

Dopo un periodo di apprendistato svolto in un importante bar di Avellino, Aniello aprì il suo nella piazza principale del paese, dove peraltro ne erano già presenti altri e di lì a poco avrebbe aperto anche il Bar Sport di Rogata, altro emigrante ritornato a Bagnoli.

È vivo il ricordo di un mattino del mese di ottobre del 1957, quando in ora ancora antelucana uscivo da casa a lu Capalanaru per raggiungere i miei compagni attendenti in piazza per andare a piedi alla stazione a prendere la litturina che ci avrebbe portato alla scuola media di Lioni.

All’altezza re lu vavutonu, l’orologio della torre rintoccò 5 volte e poi ancora 3, un nitrito e un tramestio nel buio attirò la mia curiosità, nu ciucciu con basto si era abbeverato nella bassa canalina di pietra che cingeva la vasca delle fontane e si scrollava soddisfatto la testa, mentre il padrone che potevo individuare grazie al ravvivarsi della sigaretta accesa in bocca, aspettava paziente, cappello in testa calato fin sugli orecchi, mantellina e accetta sulla spalla.

Attratto da quell’insolito incontro mattutino mi accorsi di una sfuggevole ombra bianca passarmi accanto, sotto il cono di luce fioca del lampione appeso al filo steso tra gli angoli dei tetti della casa re Aniellu re padaccola e re quiddu re lu massaru, all’ingresso della piazza, potei riconoscere Aniello in camice che come agni mattino alla stessa ora, andava ad aprire il suo bar, mettere pressione alla sua moderna macchina <GAGGIA> per il caffe da servire ai viaggiatori che erano in attesa presso il tubocar di AGITA/SFSM in sosta di fronte al bar sott’a re licine.

Di lì a poco sarebbero partiti per i paesi limitrofi o per il capoluogo provinciale, per il disbrigo di qualche pratica presso la Previdenza Sociale in Piazza Libertà, presso il Distretto Militare nella zona dei platani o per acquisti presso i negozi di Atripalda.

Le donne non erano solite prendere il caffè del Bar Centrale, preferivano viaggiare, dicevano, a stomaco vuoto per evitare il vomito da viaggio, provocato dalla puzza della nafta, dalle curve di Montemarano e Volturara e dai tornanti del Malopasso.

Intanto già si erano collocate sul bus presso i finestrini, cu li maccaturi ncapu che lasciavano scoperto solo il naso e la bocca, ad ogni buon conto già protetti da asciugamani, tenevano ancora dormiente tra le braccia il piccolo figliolo da portare a visita urgente presso qualche medico specialista di Avellino.

In piazza erano già presenti altri bar, meglio detti <caffè> o puteche, che nonostante la propria insegna, erano individuati con il nome o lo scanginomu del proprietario, talché si era solito rice iammace a piglià nu cafè addu Carlonu (bar Roma) o addu Capriuolu (bar Laceno) ca lu fannu buonu o addu Giorgiu lu Cafennuovu o lu Pintu (bar Italia) cchiu sottu int’a lu vavutonu.

Il caffè di Domenico Nigro o Giorgiu, ad onta del nome, era il più antico, angusto e severo, fornito da due tavoli in ferro e marmo bianco ormai anneriti e sbreccati dal tempo, collocati a ridosso delle due pareti laterali ornate di larghi specchi. Ai lati dell’ingresso aveva due alte vetrine in metallo che nella loro ampiezza esponevano solamente un vassoio dei miei cioccolatini preferiti <Mon Cheri>, ripieni di liquori e di una gustosissima ciliegia.

Il pregio di questo caffè era rappresentato dalla sala attigua di destra che ospitava un grande biliardo a stecca e carambola e da una saletta a sinistra in cui coabitavano un biliardo di calcio balilla e qualche sacchetta di lupini secchi messi a mollo, da vendere poi in cuppetielli dalla sempre indaffarata moglie re Giorgiu.

Giorgiu, cappello sempiterno in testa, alto, magro, baffi e barba bianca, era coadiuvato nella gestione dai figli, in particolare Carmunucciu e Rafaele, quest’ultimo addetto anche all’ordine dei locali giochi, ci cacciava di continuo fuori dal bar poiché non spendevamo e impedendoci anche di assistere ai giochi dei nostri amici più fortunati.

Infine, il Bar Italia, di Avena Domenico, padre del mio compagno e amico Pierino, più tranquillo e riservato, frequentato da giovani coppie che volevano sorbirsi in intimità il gelato re lu Pintu.

Il bar consisteva anche di una ricca pasticceria che nelle feste di Natale, Pasqua e raccomandate era sosta obbligata per i Bagnolesi che in uscita dall’ultima messa vi si fermavano per la compera del cartoccio di paste, teste di moro, zuppette e mastacciuoli da portare a casa per gustare a fine pranzo con un bicchierino di rosolio o vermouth.

Lu Pintu, oltre alla gola curava anche la fede dei nostri paesani, provvedendo, tutto l’anno e specialmente di questi giorni, alla pulizia, spolvero, adorno, illuminazione e altro della Capella della Vergine collocata a lato del suo locale.

In una sorta di distinzione per classi sociali, i caffè erano di solito e per la maggior parte frequentati da vecchi pastori bagnolesi (bar Laceno), artigiani e operai (bar Roma), giocatori di bigliardi (lu cafennuovo).

 Il Bar Centrale con la sua facciata moderna di marmo chiaro grigio e verdastro era il più elegante, talché divenne ben presto il luogo di ritrovo di noi giovani studenti bagnolesi.

Assidui frequentatori del bar chiedevamo spesso ad Aniello la funzione dei due finestrini realizzati a mezza altezza sulla facciata ai lati dell’ingresso; lui meravigliato dalla nostra stupida domanda ci diceva, anche se con poca convinzione, che erano stati realizzati per il servizio dei clienti seduti fuori ai tavolini e senza dover necessariamente uscire dal locale, una vera novità in realtà mai sfruttata.

Il Bar Centrale si affollava dei bagnolesi migranti ritornati al paese per il Natale o la Pasqua, vi si accalcavano per scambiarsi le loro esperienze lavorative all’estero, confrontare le paghe orarie in franchi e centesimi, vantarsi delle conquiste amorose e delle auto straniere <fuori serie> con le quali erano arrivati in paese, fumando e offrendo agli amici bagnolesi Parisienne, Turmac, Gauloises, North State e altre sigarette.

Il bar, sotto lo sguardo rassegnato di Aniello dietro il bancone, diventava nu gratalu in piena attività dove a volte si poteva respirare a mala pena, mentre fuori pioveva o nevicava.

Noi eravamo soliti raccoglierci per una partita a briscola, scopa, pizzucu o tressette, che compresa la rivincita e la bella, durava un’eternità e si concludeva con un premio partita di una manciata di caramelle, un caffè, un’aranciata, una gazzosa, con grande disappunto di Aniello che forniva carte da gioco e occupazione di tavolino e sedie quasi per niente.

D’estate nei pomeriggi del sabato e della domenica andavamo a giocarci la fresca birra Peroni a <padrone e sotto> con Ciro, Nando, Tonino Conte, Domenico Bernardo, Aniello, io e altri amici, in un contorno di spettatori curiosi della partita a birra a lu zilavrienzu, fruscio e primera, tarantina trieste e trentu, scopa e sette e mmiezzu.

Il gioco consisteva nel distribuire le carte ai partecipanti, chi aveva le migliori, era il <padrone> e comandava la passata di birra, d’intesa con il <sotto> avente le seconde migliori carte, proponendo o negando la birra (mannanne a urmu) a questo o quello. Se il <sotto> non era d’accordo il <padrone> si beveva anche il bicchiere di birra di questi, mentre gli altri giocatori assistevano costretti a inumidirsi lingua e gola asciutta con saliva.

 Si iniziava a giocare in spasso e allegria ma ben presto diventava una contesa, una rivalsa di precedenti giocate e veti incrociati. Il gioco si incattiviva, talché ad un certo punto Aniello chiamava il suo omonimo dietro il bancone del bar: Aniè fa na cosa, portaci nate ddoie casciette re birra e a me 5 pacchetti re salatini, pecchè me sa tantu che mo non ce ne sarà cchiu pe nisciunu.

 In questo gioco Aniello era bravo e fortunato con le carte e molto spesso dominava il gioco come padrone o come sotto, con grande delusione delle sue vittime predestinate, tra le quali manco a dirlo c’ero sempre io, nonostante suo amico carissimo.

Aniello era solito consolarmi: Affò tu lo sai io ti voglio bene ma ti devo mandare a urmu perché t’imbriachi e questo mi dispiace, ma era tutta unna scusa; Aniè ma almeno fammela assaggiare, no! non è possibile! se no pigli lu viziu.

Dopo tutto per lui era inconcepibile, che io fresco fresco venivo da Napoli a Bagnoli a bermi la birra dei bagnolesi e continuava imperterrito a riempire i bicchieri di birra fino all’orlo senza fare schiuma e se l’ingollava tutta, sadicamente, anche succhiandosi la più piccola goccia. Era uno spettacolo nello spettacolo. Indimenticabile. Senza le sue uscite il <padrone e sotto> nel Bar Centrale non aveva alcun senso.

Io alla fine della partita, spesso, mi compravo discretamente una birra e me la bevevo appartato in beata solitudine.

Ma una volta il caso volle che il vento cambiasse e anch’io fui <padrone>, allora per vendicarmi degli urmi cumulati in tante giocate, riempii sette bicchieri di birra e me li accostai per berli tutti io alla faccia dei miei amici colpevoli. Poiché io non reggevo la birra, cercavo di dimezzare i bicchieri o di fare passo, ma Aniello e tutti gli altri non me lo permettevano perché fuori dalle conclamate regole del gioco della <passatella>.

Il risultato fu una ubriacatura che nonostante la mia spola continua tra il Bar Centrale e il bagno interrato della villetta in piazza, mi bruciò lo stomaco e mi impedì di mangiare per diversi giorni.

Ho frequentato il bar tutte le volte che ritornavo a Bagnoli, fino alla scomparsa di Aniello, con la gestione affidata alla dolce e amichevole moglie Giosa, Cenzino e la sua Moira e l’instancabile Marinetta che ci lasciò prematuramente come il padre.

E adesso anche l’ultimo sacerdote del mio più caro santuario del paese chiude tabernacolo ed ostensorio e se ne va. Allora carissimo Cenzino auguri e infinita gratitudine per tutto quello che il <Bar Centrale> ha rappresentato nella mia vicenda umana.

Non so se un giorno potrò ancora tornare a Bagnoli e risparmiarmi la visione anonima del Bar Centrale chiuso, intanto provo a rassegnarmi e prepararmi a partire anche io perché sento che Aniello, Nando, Ciro, Domenico e tutti gli altri mi stanno aspettando impazienti di riprendere il <padrone e sotto> per potermi mandare a urmu e questa volta per l’eternità.

Inizialmente schivo, alla fine ho ceduto per far partecipe della mia emozione chi ancora si ricorda di me, tuttora vivo e unico superstite, o quasi, di quella schiera di vecchi impenitenti e illusi eroi dell’eterna tragedia umana. L’occasione mi ha permesso anche di fare omaggio alla memoria di Aniello, il mio più caro amico nella stagione più bella della mia vita a Bagnoli.

 Alfonso Nigro

 

 

 

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