Nel 1970 Italo Calvino pubblicò una raccolta intitolata Gli amori difficili. I protagonisti dei racconti sono uomini e donne comuni a cui non accade nulla di straordinario. Nessuna grande avventura, nessuna strabiliante impresa, ma solo esperienze interiori ed individuali; un’indagine sui desideri, i timori, i piccoli successi e fallimenti quotidiani di persone che potremmo essere noi. Per mezzo di queste storie Calvino riesce ancora oggi a parlare della società in cui viviamo.
In particolare nel racconto “L’avventura di un fotografo” il protagonista osserva con astio e sospetto la smania dei suoi amici di fotografare ogni momento della giornata, come se tutto ciò che non venga fotografato sia irrimediabilmente perduto, e che quindi bisogna fotografare tutto e “vivere in modo quanto più fotografabile possibile” oppure “considerare fotografabile ogni momento della propria vita”.
Non importa se Calvino scrivesse in un’epoca in cui la fotografia era ancora quella delle pellicole da sviluppare, la sostanza del gesto è la stessa ancora oggi. Dietro lo sguardo critico del protagonista si cela un’osservazione sorprendentemente attuale, che mette in luce una delle dinamiche sociali più rilevanti della nostra epoca: il bisogno impellente e costante di aprire la fotocamera del cellulare per scattare foto e video, documentando tutto ciò che ci accade. Necessità, questa, in larga parte riconducibile alla logica dei social network: fotografare un evento con l’unico fine di condividerlo con chi ci segue, nel narcisistico intento di mostrare una vita bella, appetibile, piena di eventi eccezionali e di esperienze invidiabili. Se Narciso si innamorò del suo riflesso, noi cerchiamo la nostra immagine sulla griglia di Instagram. Le foto sono ormai diventate un mezzo per raccontarsi, per proiettare l’immagine che ognuno vuol dare di sé. Nulla purtroppo che abbia a che fare con l’esigenza umana tra le più importanti: l’intima necessità di serbare un ricordo. Da quando i social sono entrati a far parte del nostro quotidiano abbiamo infatti sviluppato una serie di abitudini che hanno irrimediabilmente modificato il nostro rapporto con gli altri e soprattutto con noi stessi, impedendoci di godere del momento presente e affogando in un mare di sentimenti di frustrazione, invidia ed insoddisfazione.
Alcuni studi (come se avessimo ancora bisogno di studi sull’argomento) hanno dimostrato che sblocchiamo lo smartphone più di 100 volte al giorno: la prima cosa che facciamo quando ci svegliamo e l’ultima prima di addormentarci è guardare lo schermo del cellulare. Oggi fare un viaggio, presenziare ad un evento, fino a svolgere la più banale delle attività quotidiane senza postare o condividere foto e video sui social è inconcepibile, anacronistico anche solo pensare di non farlo. Ormai è raro trascorrere un sabato sera a casa senza aprire Instagram, scrollare la bacheca e fare incetta di stories di chi, a differenza di pochi di noi, è uscito a fare baldoria. Questo bisogno di restare sempre connessi, di osservare ciò che fanno gli altri e di controllare compulsivamente le notifiche per vedere se qualcuno ci ha scritto, likeato o viewato una storia, si chiama “FOMO, “Fear Of Missing Out”: la paura di perdersi qualcosa.
Rimanere esclusi da una realtà in cui tutti si divertono, in cui tutti sembrano impegnati in attività entusiasmanti, mentre noi dobbiamo accontentarci di una “vita normale”, è diventato il più grande timore del nostro secolo, più della pandemia, più della guerra alle porte di casa.
Questa sensazione di frustrazione e avvilimento spesso si tramuta in una vera e propria ansia sociale, un perenne stato di angoscia, che ci distrae e ci impedisce di trarre qualunque soddisfazione dalle attività che stiamo svolgendo. A coniare l’acronimo di FOMO è stato l’esperto di marketing Daniel Herman nel 1996; egli aveva osservato che molti individui, durante un focus-group, diventavano ansiosi all’idea di lasciarsi sfuggire un prodotto che altri avrebbero potuto acquistare. Secondo Herman, il fenomeno non scaturisce tanto da un bisogno individuale di fruizione di un prodotto, quanto dall’esigenza di conformarsi agli altri; se gli altri desiderano qualcosa, allora quel desiderio deve necessariamente appartenere anche a noi. Un’esigenza in qualche modo derivata dalla Teoria sul Conformismo di Solomon Asch, che spiega come ciascun individuo tenda a modificare le proprie opinioni e i propri desideri in base alle idee e alle inclinazioni degli altri.
Ad approfondire il concetto di FOMO, rimarcandone il potere distruttivo e provando ad individuarne i rimedi, è stato lo scrittore statunitense Patrick McGinnis, con un editoriale sulla rivista della Harvard Business School. L’articolo di McGinnis parlava di come l’ansia sociale all’interno del campus di Harvard condizionasse la vita di molti studenti, i quali, pur di non vedersi tagliati fuori da un evento mondano, si sottoponevano a profondo stress, rinunciando addirittura al riposo. McGinnis, dal canto suo, coniò il termine FOBO (“Fear Of a Better Option”), che indica l’incapacità di scelta davanti a troppe alternative, a causa del timore di lasciarsi scappare quella migliore. Anche Joseph Reagle, esperto di cultura digitale e docente di comunicazione alla Northeastern University di Boston, in uno studio sull’argomento, ha sottolineato come la FOMO affondi le proprie radici nel timore di perdersi qualcosa di appagante ed entusiasmante, con la susseguente sensazione di invidia per tutto ciò che gli altri hanno o fanno, e che a noi invece sembra mancare.
Questa tendenza, atavica nell’uomo, è oggi acuita dall’accessibilità che tutti abbiamo alle vite degli altri attraverso le vetrine social, dove ognuno decide cosa condividere, spesso alterando la realtà per renderla più appetibile al proprio pubblico.
Oggi la FOMO è una delle maggiori cause di malessere di buona parte della popolazione, soprattutto, neanche a dirlo, tra i più giovani. A rendere questa forma di ansia particolarmente pericolosa per il benessere psicologico è quel mix di frustrazione e invidia che impedisce di godersi il momento presente, quello che si sta vivendo, nella convinzione che sicuramente in quello stesso istante qualcun altro è più soddisfatto, fortunato e appagato di noi. Questa spirale ci rende così impossibile apprezzare la nostra quotidianità, inducendoci a desiderare costantemente ciò che non abbiamo e a idealizzare le vite degli altri.
Andrew Przybylski, scienziato sociale dell’Università di Oxford, insieme ad alcuni ricercatori dell’Università della California, di Rochester e dell’Essex, ha cercato di delineare il profilo della persona media affetta da FOMO: i giovani appunto, a prescindere dal sesso, in cui vi è una bassa considerazione della propria vita e bassi livelli di autostima; ancora incapaci di riconoscere i propri bisogni e desideri profondi, finiscono per cadere nella spirale del conformismo, lasciandosi influenzare, e talvolta ossessionare, da ciò che fanno gli altri. La dipendenza da dispositivi elettronici, che veicola e fa da padrona a tutto ciò, sembra essersi oramai cronicizzata negli studenti, che ormai utilizzano pc e smartphone anche durante le ore di lezione in DAD.
Se relazionarci con gli altri o serbare il ricordo di un momento è un bisogno che non ha nulla di dannoso, la sua degenerazione ha portato a comportamenti ossessivo-compulsivi, come il controllo delle notifiche anche quando si è in compagnia, e la sensazione di amarezza davanti a una foto sui social in cui altri mostrano di divertirsi, mentre noi siamo a casa a lavorare, studiare, o semplicemente perché troppo stanchi per passare una serata fuori.
La FOMO porta, come abbiamo visto, profondi stati di malessere, provoca insoddisfazione costante fino al crollo dell’autostima ed a un conseguente senso di noia e solitudine, lasciandoci in preda all’esigenza di condividere tutto ciò che facciamo durante la giornata, per dimostrare agli altri che anche noi abbiamo una vita piena e soddisfacente.
Uno studio del 2019 dell’Università di Glasgow, condotto su un campione di 467 tra ragazzi e ragazze, ha dimostrato che la paura dell’ostracismo sociale è causa di insonnia e di continua stanchezza psicologica e finisce col compromettere tutte le attività quotidiane. La maggior parte degli intervistati avverte la pressione di dover stare sempre connessi per non perdere il controllo della propria identità sociale e della propria appartenenza al gruppo, sviluppando la convinzione che, se disconnessi, saranno estromessi dalla community. Per rimediare alla FOMO, ed evitare che dilaghi ulteriormente, occorre prendere coscienza del problema e dei danni che questo fenomeno reca alla nostra autostima e al nostro benessere psicologico.
Il medico tedesco Eckart von Hirschhausen sostiene che la risposta alla FOMO sia la JOMO (“Joy Of Missing Out”) ossia il “piacere di perdersi qualcosa”; dobbiamo iniziare a selezionare ciò di cui abbiamo davvero bisogno, sia da un punto di vista materiale che psicologico ed emotivo e, di conseguenza, scartare tutto ciò che è superfluo, concentrandoci sul nostro mondo interiore, accantonando quello che il web ci mette costantemente davanti e fare delle scelte basate sui nostri reali bisogni ed interessi, rigettare una volta per tutte quel bisogno compulsivo di non voler perdere ciò che accade agli altri, o peggio, di rincorrerli nel farneticante paragone con le loro vite, iniziando con un semplice esercizio: prima di fare qualcosa, qualsiasi cosa, chiediamoci se lo stiamo facendo perché ci va di farlo o se perché mossi dalla necessità di produrre un contenuto da sottoporre ai nostri followers.
Martin Di Lucia
(da Fuori dalla Rete, Giugno 2022, anno XVI, n. 3)
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