La nascita del poeta satirico Giulio Acciani a Bagnoli Irpino il 14 febbraio del 1651 fu segnata da un evento premonitore: andarono a fuoco i registri parrocchiali come furono in seguito incendiari i suoi mordaci e limacciosi versi satirici scritti anche in punto di morte, tanto da suscitare l’attenzione di Benedetto Croce. Famosa è la sua satira contro Fulgenzio Arminio Monforte, vescovo di Nusco dal 1669 al 1680, con cui lo sbeffeggiava e derideva in modo crudele e senza fare sconti.
A quindici anni, – scampato alla peste del 1656 che desolò Bagnoli -, con il fratello era stato inviato dal padre a Napoli per studiare giurisprudenza. Ma l’Acciani con grande disappunto del genitore preferiva le lettere. Nella città partenopea, conseguita anche una laurea in medicina, si schierò apertamente a fianco dell’amico – forse parente – Leonardo Di Capua nella disputa accademica tra Investiganti e Discordanti, parteggiando con gli innovatori contro i tradizionalisti. Purtroppo morì a soli trent’anni dopo una grave malattia. Non avendo dato alle stampe nessuna delle sue opere, esse rimasero – anche se molto conosciute – nella forma di manoscritti.
Solo nel 1892 ci fu la sua riscoperta, grazie a Giulio Capone e Salvatore Marano, studiosi di Montella. Nicola Amenta, contemporaneo dell’Acciani, nel suo libro “Rapporti del Parnaso” racconta il seguente fantasioso episodio, non sappiamo se per declamare o denigrare la fama del poeta bagnolese.
Una volta il Vicerè spagnolo organizzò un pranzo all’aperto. Suonata la messa a raccolta, su un verde prato accanto ad un torrente furono apparecchiate molte tavole. Sedutosi a capotavola arredata in modo regale, il Re fece sedere accanto a sé poeti e scienziati alla sua corte. Si erano appena lavate le mani per iniziare il pranzo, quando tre poeti fra i quali Giulio Acciani gli si avvicinarono porgendogli tre piatti d’ insalata di erbucce. Fatta la riverenza, presentarono le insalate al Vicerè. Ma appena questi ebbe assaggiato quella offerta dall’Acciani, la sputò subito e rivolto al Poeta gli disse che la sua pietanza non si poteva nemmeno assaggiare, tanto erano pungenti le erbe che la componevano, buone a ferire le persone anziché saziarle. Ordinò così di portare quella pietanza a due nobili seduti a tavoli poco lontano.
Ma pure questi fecero ciò che aveva fatto il Vicerè. E passarono pure loro la pietanza ad un altro invitato seduto ad un altro tavolo. Costui era Pietro L’Aretino il quale da solo mangiò con voracità tutta la pietanza senza lasciarne nemmeno una briciola. Peccato che il divino Pietro l’Aretino, autori dei famosi sonetti licenziosi, era morto nel 1556.
Giovanni Marino
(da Fuori dalla Rete, Maggio 2021, anno XV, n. 2)
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