Ecco “Bagno delle pecore – Un tuffo nella tradizione” tratto dal testo “da Li-Agnisi…a Candela” curato dall’Associazione People Love Laceno.
Pasquale Dell’Angelo, un pastore errante sui monti del Laceno. La vita del pastore è un inno alla vita a contatto con la natura e i valori della tradizione, nella consapevolezza di un legame indissolubile che unisce il paesaggio del Laceno alla terra antica degli hirpini. Molte storie parlano di uomini che hanno scelto altro. Questa racconta di un uomo che cerca di restare, con orgoglio autentico sulle orme del padre Francesco.
La tosatura resta a tutt’oggi una pratica necessaria per la salute delle pecore. In tale circostanza i pastori si riunivano con le relative morre di greggi in prossimità dei fiumi a fine maggio inizio giugno per procedere dapprima al lavaggio e poi alla tosatura. La prima operazione importante era che le pecore andavano lavate a fondo, si diceva “vagnà re ppècur” (bagnare le pecore) e per liberare la lana dai grovigli di sudiciume, le zzotole, che si formavano nel manto delle pecore durante l’inverno, specie se la pecora “zelava”, cioè si sporcava di diarrea.
Le pecore venivano indotte a tuffarsi più volte nel fiume, jumara, per ottenere lana più pulita e per prevenire infezioni all’animale durante la tosatura in quanto l’operazione poteva lacerare talvolta la pelle. Si sceglieva l’ansa di un fiume dove l’acqua era più profonda e che disponesse di una sponda alta di un paio di metri per consentire alle pecore di ottenere la spinta sufficiente a farla sprofondare nell’acqua con tutto il corpo così che la lana si lavasse più efficacemente. Il pastore creava un corridoio con rete e pali che usava per i recinti, in modo da indurre le pecore a organizzarsi in una fila compatta e una volta spinta la pecora capo fila al tuffo tutte le altre seguivano verso il salto. Si sceglieva un numero di tuffi dispari perché il numero pari avrebbe portato sfortuna. Terminato il bagno le pecore si lasciavano asciugare per alcuni giorni dopo i quali erano pronte per la tosatura.
Alla tosatura provvedevano i cosiddetti carusatuti. Le pecore venivano prese per le zampe, ribaltate con il dorso per terra e quindi immobilizzate legando insieme le quattro zampe con l’uso di un legaccio. Questa operazione si diceva ‘mbasturà’. Un tempo si usava una corda ricavata dalle code delle vacche, detta pastòra. Per la tosatura si usava la forbice in ferro, fabbricata dall’arrotino, lu mularo, che si passava sulla lana a fior di pelle, cima cima. La lana che si ricavava dalla tosatura è detta “manta”, o “manta re lana”, usata per imbottire i materassi – scardalana era la donna che si occupava di cardare la lana – o per filare maglie e calze. Per i materassi si usavano trentadue velli bianchi e uno nero al centro, che per la sposa era un augurio di fortuna. La tosatura si concludeva con una grande festa e per l’occasione si cuoceva un agnello sulla brace.
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