Il diritto dei paesi a morire

di Giuseppe Melillo (Huffingtonpost.it)

I paesi hanno bisogno di serietà e dignità non di retorica, men che meno di demagogia tossica e deleteria.

Paesi che si trasformano in non-luoghi, uguali senza identità, dismettendo il loro essere spazi antropologici, con una identità culturale, relazionale e storica ben definita. Rappresentazione di questo tempo, si trasformano in luoghi turistici e/o ospedalieri con la creazione di RSA (residenza sanitaria per anziani) non più funzionali agli abitanti ma legati alle necessità delle presenze e degli arrivi, alla provvisorietà e al transito di clienti e fruitori travestiti da abitanti temporanei.

La storia ci dice che i luoghi non sono eterni, “subiscono l’ingiuria degli anni” come tutto e tutti. Non sono eterni gli imperi, figuriamoci i piccoli paesi che la storia economica ha messo ai margini delle dinamiche sociali, economiche e politiche. Una mutazione abitativa che è inscindibile dalla storia evolutiva dell’uomo, dal suo farsi spazio nel mondo e trasformarlo in un luogo legato al soddisfacimento dei suoi bisogni primari.

Paesi nati in cima a colline o montagne, attorno a castelli o conventi per proteggersi da nemici e essere più vicino agli uomini di Dio. Oggi Dio è ovunque, i nemici non arrivano dal mare o dalle pianure e le strade del progresso percorrono le valli e le coste.

E i paesi d’improvviso diventano borghi! Il concetto di borgo omologa: stessi eventi, sagre, monumenti storici, piatti tipici, stesse insegne. Luoghi fatati circondati da silenzi, sospesi nel tempo, atmosfere uniche. Un immaginario romantico rurale che, in un processo di negazione della realtà, disconosce la storia, fatta di miserie e di fatiche. Denominarli borghi, inserirli in reti nazionali, designarli con qualche titolo o bandiere, però non migliora all’improvviso la loro condizione; le disuguaglianze e le contraddizioni territoriali rimangono tutte.

I paesi soffrono della mancanza degli investimenti strutturali giustificati da assenza di sostenibilità economica degli investimenti stessi. La realtà racconta di paesi senza dipendenti comunali, rete internet a singhiozzo, trasporti e mezzi pubblici sempre meno presenti, ricostruzioni post terremoto o post frane mai conclusi, scuole elementari con pluriclassi, servizi essenziali assenti, biblioteche ed edicole un lontano ricordo, qualche bar in piazza, dove giovani e anziani si incrociano, attività sportive o ricreative distanti chilometri. Paesi che se non cambiano le dinamiche in atto sono destinati ad essere parte del grande libro dei paesi scomparsi. E chi rimane diventa un resistente, non un resiliente, in un luogo che non non ha il ritmo della società dei consumi e dove lo spirito del tempo moderno sta “consumando” il genius loci.

Ci si rifugia nel termine borgo che diventa un neutralizzatore delle complessità presenti nel paese e lo trasforma in un luogo estetico, artistico, emotivo e anche poetico, di memorie artificiali e di abitanti souvenir da rendere telegenici o social.

Un borgo è quel luogo dove si crede che vendere case a 1 euro diventa un’idea di riscatto e non di sconfitta. Il borgo è un paese che muore senza avere diritto di morire con dignità dopo che gli è stata tolta la dignità di vivere. Forse è meglio lasciar morire i paesi che far vivere loro l’umiliazione di essere svenduti come cianfrusaglie al mercato delle pulci! Ormai si trascinano come moribondi afflitti da mali mai curati; lo spopolamento è l’effetto della malattia non la malattia. Forse è meglio evitare l’accanimento terapeutico e affrontare seriamente con tristezza la realtà: ci sono paesi che non ce la fanno a sopravvivere alla contemporaneità!

Giuseppe Melillo (Huffingtonpost.it)

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