I bicchieri di plastica, cibo confezionato, verdure di serra e pista del liscio: nate per mantenere viva la memoria contadina, non c’entrano più nulla con l’identità dell’Irpinia. DOP, IGP, DOCG, presidi Slow Food, sono solo etichette per prodotti che non vengono proposti al pubblico ampio dei grandi eventi. Non ci piacciono le catene di montaggio con menù tutti uguali e offerte scadenti, ci piace quello che fa bene al territorio: bisogna cambiare prospettiva e modello di sviluppo o ci ritroveremo con una fetta di pane e caciocavallo in mano a chiederci dove abbiamo sbagliato.
Parliamo di sagre. Sì, di nuovo. Dopo aver analizzato il dettaglio dei finanziamenti POC – Piano Operativo Complementare destinato a promuovere e rafforzare l’offerta turistica e culturale – per questa ricchissima estate di eventi in provincia, ci è sembrata unica la deduzione da poter fare in riferimento all’Irpinia: l’abbiamo ridotta ad una sagra di paese.
Ma bisogna chiarire, semplificando – la complessità ultimamente sembra non piacere a nessuno – che l’intento non era denigratorio, cioè le sagre non sono brutte e cattive sempre e in maniera indistinta. Lo diventano quando non sono un bene per il territorio.
E per fare un esempio ci è venuto incontro un articolo pubblicato da Punto.Ponte a firma dell’associazione Gente di Montagna: è una riflessione ironica – e molto realistica – che viene da questa APS nata a Bergamo e formata da un gruppo di persone che, provenendo da esperienze significative in campo culturale, formativo, medico, sportivo e tecnico hanno formato un gruppo capace ed impegnato nella promozione della cultura e delle tradizioni delle valli alpine e nella valorizzazione dell’ambiente con particolare attenzione alle Regioni Montane.
Promuovendo in maniera sistematica e attenta un’idea di terre alte e di persone che sopra ci vivono, scrivono così: «Feste popolari dove il cattivo mangiare si unisce allo stare scomodi su panche tipo “festa dell’Unità” e, spesso, ad esibizioni imbarazzanti di musica (si fa per dire) afro-rock-liscio-vintage. Ogni paese, assieme alle inutili rotonde, ha la sua sagra. Anche, ovvio, i piccoli paesi di montagna che non possono essere meno di quelli altri della pianura. E così vai con la Sagra del Calamaro Fritto, rigorosamente a km zero e a mille metri di altitudine, della Lasagna, della Birra Artigianale, dello Gnocco, della Madonna (sulle feste patronali poi il discorso si svolge identico e più colpevole, se mai fosse possibile, visto che il Patrono sta ben comodo sul foglio del calendario e la sua festa, invece, comincia dieci giorni prima e dieci giorni dopo termina), del Salame, della Focaccina, della Rana e dello Stracotto (assieme), della Porchetta e dei Muscoli, del Vitello, della Costina e, l’elenco potrebbe andare avanti, della Polenta in Allegria. Sono baccanali dove con la scusa “di stare in compagnia” tasso alcolico e volgarità sono sempre ad ottimi livelli (quelle che sono veramente diverse, e ce ne sono, le trovi solo con il lanternino) e tra loro hanno dei punti in comune oltre a quelli detti sopra. Prezzi appena più bassi dell’unica trattoria che resiste in paese che non coprono certo la qualità dei prodotti “locali” sbandierata nelle locandine e allegre volontarie e panzuti volontari che aggratis lavorano come cameriere/i, cuoche/i, cantiniere/cantinieri, cassiere/i per questa o quella giusta opera benefica. Il tetto della chiesa, il pulmino per i disabili, il compaesano missionario in Africa (il famoso aiutiamoli a casa loro). E a tavola, staccando a fatica i gomiti incollati sullo strato di “pulito-con-lo-straccio“, si parla di crisi del lavoro, di negozi che chiudono, di aziende agricole strozzate dalla grande distribuzione, di allevatori che non riescono più a stare in piedi, e di giovani che non trovano il lavoro, nemmeno quelli che hanno frequentato l’istituto alberghiero vanto della Valle. Il tutto a sette euro. Biglietto della lotteria escluso».
E’ esattamente questo il punto. Le responsabilità, ça va sans dire, sono di chi questi eventi spacciati per promozione del territorio li organizza e pure male. Ora contestualizziamo: le sagre sono la vita che si riprende tre, massimo quattro giorni all’anno, quando è il momento di tirare fuori quintali di rape dal congelatore per accontentare i forestieri che sudano mangiando rape e patane e bevendo vino rosso da cinquanta centesimi – proprio qua – che lascia in omaggio pure un bel sorriso violaceo. Dalle pennette alla boscaiola, alle trote in festa, menta, cipolle, baccalà, pizze fritte, maiale, vitello, fasuli, tartufi e castagne d’importazione: paradossalmente nate per mantenere viva la memoria delle tradizioni contadine e caserecce, non azzeccano ormai più nulla con l’identità dell’Irpinia. DOP, IGP, DOCG, presidi Slow Food, sono soltanto etichette, usate al momento sbagliato, per prodotti destinati a restare di nicchia, perché non vengono proposti al pubblico ampio delle sagre, che magari vuole proprio assaggiare il territorio e invece si ritrova davanti qualcosa che irpino proprio non è.
Per tutti questi motivi, noi condanniamo eventi che ormai sono catene di montaggio in plastica: bicchieri, piatti, cibo confezionato, verdure di serra e tovagliette di carta, ogni cosa finisce per diventare artificiale e insensata, perché nessuno storce il naso per il prodotto tipico, il vino eccellente, la compagnia, le danze, la musica tradizionale o l’arte culinaria della nostra terra, banalmente non ci piace la massificazione con i menù sempre uguali e l’offerta scadente, in tutto – dalla promozione alla qualità – che ci nega il piacere di vivere e apprezzare quello che produciamo e quanto di bello e di buono abbiamo ereditato.
Lo sviluppo di questo territorio sta nelle scelte che facciamo: se la cifra comune è quella di dar vita a nuove forme di economia, una nuova comunità, nuove relazioni sociali, allora dovremmo essere capaci di riconoscere la ricchezza del posto in cui siamo nati, cresciuti, in cui abbiamo deciso di vivere. Non ci ostiniamo a conservare quello che non racconta di noi: «Chi resta deve vivere nella contemporaneità, non certo regredendo a forme arcaiche, con la coscienza e la consapevolezza del tempo in cui siamo e di cui siamo responsabili». Ci ha detto una volta Vito Teti.
Non serve fare i neoromantici o levare gli scudi per difendere sagre di poco – o nessun – conto, dovremmo piuttosto esigere maggiore rispetto da parte di chi governa e decide per i territori, bisogna cambiare prospettiva e magari anche modello di sviluppo o ci ritroveremo al lato della pista del liscio con in mano la nostra fetta di pane e caciocavallo impiccato a chiederci dove abbiamo sbagliato.
Maria Fioretti (Oritcalab.it)
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