Il Renzismo speranzoso di Sant’Amato

di Antonio Cella

C’è ancora qualcuno nel nostro paese che, a distanza di circa quarant’anni, chiami in causa l’inadeguatezza di alcune amministrazioni comunali che negli anni ‘80, prima e dopo il passaggio dell’onda d’urto di natura sismica sulla nostra Provincia, hanno tenuto, saldamente e per lunghi tempi, le redini del Comune. E dice: “Ma come? Nonostante la rappresentanza massiccia dei nostri politici nella composizione del Governo centrale, gli amministratori locali non sono stati capaci neppure di sfruttare quel momento magico per rivoluzionare lo status fisico di Bagnoli, gravemente ferito dal maledetto evento tellurico! Avremmo potuto avere, con l’aiuto di chi governava veramente l’intera nazione, facili benefit per sfruttare le potenzialità turistiche del paese realizzando impianti di risalita tecnologicamente all’avanguardia, e centri sportivi alla portata dei tempi nonché un serio rilancio a livello nazionale delle grotte di Caliendo e, perché no, anche la impermeabilizzazione del fondo lacustre che, è il caso di dirlo, perde acqua da tutte le parti”.

Esagerato!!!

Bagnoli, si sa, è stato per lungo tempo amministrato da formazioni politiche coibenti, pressappochiste, soprattutto quando a dirigere l’orchestra venivano chiamati sul podio i membri di antiche famiglie “littorie”, abilmente mimetizzate all’ombra dello scudo crociato. Uomini che si donavano anima e corpo (servilmente direi) a chi sul potere aveva messo saldamente le mani, in cambio di una parte infinitesimale di benessere che essi stessi avevano seminato. Sarà anche che, per conformazione mentale, il bagnolese non è portato a chiedere. Il pudore e l’umiltà gli inibiscono la facoltà di far ricorso a ogni tipo di aiuto. E, quasi sempre, deve accontentarsi dell’osso.

Ricordo che, nei primi anni novanta, la maggior parte dei paesi vittime del terremoto, non si erano ancora liberati, nel lungo decennio, degli scheletrici ponteggi e delle mostruose impalcature che servivano a sostenere, non tanto le mura dei caseggiati, già marce per vetustà, ma soprattutto il voluminoso incremento di entrate di talune imprese edili che godevano i favori dei “partiti di governo”. E ricordo, inoltre, che altri paesi (figli di un dio maggiore) già da qualche lustro avevano cancellato gran parte dello scempio di cui sopra grazie, appunto, alle “rimesse veloci” da parte dello Stato di quanto necessario alla ricostruzione. Rimesse velocizzate in cambio di che cosa? La mia dubbiosità non è soltanto un interrogativo fine a se stesso, ma anche una domanda cui dare risposta. Con questo non voglio dire che gli autori della spinta propulsiva delle menzionate rimesse (politici di basso rango o ineffabili yesman ministeriali?), siano necessariamente scesi a compromessi con i beneficiari dei finanziamenti ma, in merito, c’è qualcosa che fa pensare, che induce a chiedersi: perché a loro sì e a noi no!? Gli autori di dette opere deteriori, siano essi uomini politici, siano essi funzionari pubblici, avranno goduto quantomeno una particolare protezione da parte del Sinedrio che li ha arruolati, che ha consentito loro di acquisire importanti incarichi dirigenziali negli enti pubblici e di sottogoverno, in barba alla meritocrazia, e di favorire l’aggiudicazione pilotata di appalti prestigiosi di opere varie nei settori governativi ad aziende amiche. Grazie ad essi, ci ritroviamo oggi sommersi nella mediocrità di chi opera in settori delicati che, in questi ultimi tempi, ci obbligano ad assistere, con le lacrime agli occhi, alla strage di innocenti sotto il peso di ponti costruiti con materiali scadenti, al crac di banche considerate da sempre sinonimo di garanzia e tranquillità e alla transumanza del potere politico nelle mani di un manipolo di scalatori che, per insipienza, stanno facendo di tutto per far cacciare l’Italia dall’Unione Europea.

Sì, è vero, a quell’epoca il politico di riferimento degli Hirpini era Ciriaco De Mita, rampante e irraggiungibile (per chi viveva agli antipodi della sua scuderia) “NUME” tutelare, che avrebbe potuto cambiare il destino dell’Altopiano Laceno.

Personaggio potente, in piena apoteosi della sua fortuna politica, (morbosamente attaccato all’humus della sua Terra d’origine), che, idealmente, ebbe l’ardire di declassare Napoli da città metropolitana in “Avellino-Marittima”.

Con Lui, nel periodo temporale 1982-1992, hanno operato in sinergia i seguenti parlamentari Irpini: Salverino De Vito, (Bisaccia 1926) Ministro per gli Interventi Straordinari nel Mezzogiorno; Gerardo Bianco, (Guardia dei Lombardi 1931), Ministro per la Pubblica Istruzione; Nicola Mancino, (Montefalcione 1931) Ministro dell’Interno e Giuseppe Gargani, (Morra de Sanctis 1935), Sottosegretario Ministero della Giustizia.

Era un leader assoluto! Un vero uomo di comando. E chi è abituato al comando, non può fare altro che continuare a comandare. Anche nella soluzione di problematiche insignificanti, di piccole cose, LUI, per suo costume, ha sempre  l’ultima voce in capitolo e agisce d’impeto, come ha fatto ultimamente, col disappunto del Sindaco di Sant’Angelo dei Lombardi e di altri Sindaci dei Comuni dell’Alta Irpinia, nel collocare nella residenza nuscana la sede del “Progetto Pilota”, (allo stesso modo con cui “autorevolmente” si comportò ai tempi della sistemazione della sede provinciale del Parco dei monti Picentini). Paese dove, a novant’anni suonati, per mantenere “giovane” il frizzante acume, si cimenta nelle vesti di Primo cittadino.

Carica che lo soddisfa oltremodo, tanto che, come ha scritto ne “La storia d’Italia non è finita”, non manifesta ombra di incertezza nell’affermare (celiando?) di non essere incline a sostituire la vita di oggi con la vita vissuta – portatrice, a suo dire, di malinconici pensieri che si risolvono nella vuota astrazione contemplativa, che tende a isolare la persona dalla comunità –. No! Lui trascina ogni giorno, con orgoglio, il peso della sua armatura non più nell’incanto sofisticato dei palazzi del potere della Prima Repubblica, ma nell’uso della sua intelligenza in affannose sfide televisive versus giovani politici di talento, e nella conduzione amministrativa di una pluralità di gente, che ancora legge in lui capacità taumaturgiche, atte ad alleviare (se non a risolvere) le angustie della vita.

La politica è una “carta sporca”: non dà niente per niente!

Ora, però, i tempi sono cambiati: non sono più quelli di una volta. Anche i “potenti”, sono inchiodati al redde rationem, ossia alla rendicontazione delle spese al popolo sovrano, prima ancora che alla magistratura. Sono finiti gli sfarzi e i facili sprechi; i tempi che vedevano primeggiare associazioni finanziarie pubbliche e private, Enti ospedalieri, e una miriade di istituzioni di “diritto pubblico”, del tipo Consorzio Alto Calore (per quanto attiene alla nostra Provincia), al comando di abili manager ancorati alla “casa madre”, di cui ancora esistono silenziosi strascichi.

La politica è una “carta sporca”.

C’è però qualcuno che, incredibilmente, si è lamentato di tanto dogmatismo, essendo rimasto con un grumo di mosche in pugno: Sant’Amato, unico Nuscano a non aver beneficiato dei favori di CDM per glorificare il suo teorema. E di seguito vi spiego il perché.

Dovete sapere che nella primavera del 2008, durante un comizio elettorale rivolto alla gente di Bagnoli, pronta a votare il rinnovo del Consiglio Comunale, ho parlato per circa un’ora di De Mita, e di quanto avesse fatto per i suoi sostenitori, senza però mai chiamarlo per nome. Tanto, per rispetto, per simpatia e mero riguardo verso l’Uomo che, ribadisco, non si è mai rifiutato di dare una mano ai bisognosi. Pensai, allora,  di sostituire il nome del politico fondendolo con quello del Protettore dei nuscani per cautelarmi e, al contempo, per presentare ai simpatizzanti e ai sostenitori della mia lista elettorale la figura reale del tanto amato, del tanto temuto e vituperato uomo politico, capace di miracolare (di qui, la necessità della fusione di cui sopra) l’esistenza grigia di tanti giovani inserendoli nel mondo del lavoro, e di attrarre oltre centomila voti di preferenza nelle competizioni elettorali. Poi, finita la campagna elettorale, vinte le elezioni, mi sono ritirato nel mio guscio per godermi il meritato riposo: niente più ore piccole con gli amici a far previsioni e cenate notturne, fatte di pizzette e fritture sicuramente nocive alla labilità del mio delicato sistema digestivo.

La tregua, però, fu piuttosto breve. Finì nel momento in cui mi apparve in sogno Sant’Amato in “carne ed ossa”, per chiedermi, con tono enfatico, solenne, “Perché mai ce l’avessi così tanto contro di lui”.

Io sono un relativista, uno spirito oggettivante. E nei sogni, nelle visioni immaginative rileggo soltanto insensatezze, astrattezze, momenti di inspiegabili entusiasmi e di inquietanti malinconie. Ma quella notte, vi giuro sulla testa delle mie figlie, sono rimasto sconvolto, sgomento. E, di tanto, qualche giorno dopo, ho reso edotto soltanto il mio amico Luciano. Quello che racconto in questo momento, esula dal contesto metaforico in cui spesso si ricorre allo scherno e all’invettiva sferzante verso aspetti o personaggi tipici del nostro tempo (Crozza docet). Ma non vi sto parlando di Berlusconi: si tratta di Sant’Amato, che ho imparato ad amare e rispettare fin dalla tenera età, da quando mio nonno mi portava in giro per i campi e per i castagneti che conducono alla chiesa della Madonna di Fontigliano e, quindi, fin sotto le mura di Nusco. E ancora avverto il calore della sua vicinanza, la timidezza che mi incuteva la sua figura ieratica: non capita tutti i giorni, caspita, di incontrare sul cammino di noi miseri mortali un santo del Paradiso! E, ritornando al sogno, non fu cosa facile acquietare tout court il sant’uomo: dovetti spendere tutta la mia eloquenza, tutte le mie capacità di convincimento, di persuasione, per fargli capire come oggettivamente fossero andate le cose. E quando gli parlai di Ciriachino, come viene chiamato confidenzialmente dai sodali bagnolesi CDM, con una smorfia di diniego sulla bocca mi disse:

Lascia perd, uagliò! Lo conosco da quando è nato, e da lui mi aspetto ancora un tantino di misericordiosa gratitudine. Devi sapere che nei confronti della sua famiglia, dei suoi lontani avi, sono stato molto generoso. Nel 1793 li ho persino magnificati in un mio scritto, “La vita del canonico De Mita”, e non ho mai fatto mancare nelle mie preghiere la protezione divina per tutti i membri della famiglia medesima, senza mai ottenere, non proprio riconoscenza, ma quantomeno una forma piuttosto larvata di compiacenza, uno sguardo carezzevole alla mia persona. E quando mi sono arrivate le prime avvisaglie dell’ingresso nel mondo politico di un tale Matteo Renzi che minacciava di “rottamare”, mettere fuori dai posti che contano i vecchi politici, i dirigenti, i burocrati e i detentori di cattedre universitarie laiche, religiose e quant’altro, ho finanche gioito. E a te posso dirlo: speravo ardentemente che una “spintarella” di Ciriaco, astraendo dallo spessore del mio curriculum di Principe della Chiesa, potesse essere consustanziale alla mia presa di potere sulle Porte del Paradiso. Ma, al mio input, ha fatto seguito, a quanto pare, soltanto un criptico e inaspettato silenzio. Ne avrei avuto tutto il diritto, non ti pare? Se consideri, poi, che San Pietro ha circa mille anni più di me, la teoria renziana, Deo gratias, mi fa ampiamente giustizia, è tutta dalla mia parte poiché, essendo tra i due il Santo più giovane, credo che tuttora nulla osti al rappresentante di Pietro in Vaticano (dove la porta è sempre aperta per i politici di un “certo peso”) disporre con apposita “bolla papale” l’assegnazione di quelle benedette chiavi al sottoscritto. Lui, però, non ha recepito i messaggi che, da illo tempore, instancabilmente gli invio. E sono sempre in attesa che il miracolo si avveri. Spes, ultima dea”.

Potenza dei sogni.

Come si fa, mi chiedo, a rendere quasi reali nei minimi particolari incontri e relazioni di varia natura con persone e cose lontane anni luce, mai conosciute, mai incontrate, di cui non si ha neppure consapevolezza della loro esistenza sulla faccia della terra?

C’è qualcuno che possa darmi un aiutino?

Antonio Cella

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