Arnaldo Raffaele, affettuosamente detto Cacchione (nella foto insieme a moglie e figlia, ndr), è il settimo figlio di Luca Labbiento, impiegato comunale. Prima di lui, Luca, aveva messo al mondo sei figlie femmine e, maschilista qual era, non se ne dava pace: voleva a tutti i costi un figlio maschio.
Luca era convinto che la causa del suo procreare figli femmina fosse riconducibile ad una anomalia cromosonica (abbondanza di segni “X” nei propri cromosomi). Lacuna, che poteva essere colmata con una semplice operazione algebrica. Per questo aveva interpellato i matematici di sua conoscenza affinché, con il loro aiuto, fosse inserita la longilinea “Y”, simbolo dei cromosomi generatori di maschi, al posto della famigerata “X” e poter, così, fecondare finalmente la cellula uovo in direzione maschile.
Luca, se avesse potuto, avrebbe fatto di più: si sarebbe volentieri sottoposto, precorrendo i tempi, a manipolazioni genetiche. Purtroppo, né l’una né l’altra ipotesi potevano trovare riscontro nella realtà. Per risolvere il suo problema non bastava la fantasia del disneyano Archimede Pitagorico. E fu proprio quest’ultimo, forse, a prestargli il “genio”, poiché al settimo colpo, con suo immenso piacere, poté notare tra le pieghe del nascituro un pimpante, minuscolo pisellino. Tanta fu la gioia del buon Luca da denunciare all’anagrafe il terzo nome del suo primo maschietto con l’avverbio “Finalmente”.
Ma, in barba all’etimolo, che sta a significare il raggiungimento di un obiettivo, conclusione, fine desiderato, il papà di Cacchione, vezzeggiativo che nell’immaginario distorto degli ammalati di sesso simboleggia la virilità, la mascolinità, continuò anche al di là della propria giurisdizione coniugale, a donare la greca “Y”, a numerose donne del paese e a quelle dei paesi che confinavano forestalmente con il suo, grazie anche alle sue caratteristiche plastiche e alla divisa di guardia forestale, che incuteva attrazione e rispetto. Tanti, perciò, furono i “cacchioni” da lui generati, da non consentire ad uno dei figli legittimi, che nel tempo si era aggregato al numeroso nucleo famigliare, di tifare serenamente per la squadra di calcio locale in occasione dell’incontro della stessa con la squadra della vicinissima Nusco.
Il motivo? E’ presto spiegato. Della formazione calcistica bagnolese conosceva tutti gli elementi, gruppo sanguigno compreso. Dei nuscani, no!: potevano essere suoi fratelli uterini.
Non era nello stile di Luca elevare contravvenzioni a danno di quelle campagnole da lui sorprese a rubar legna da ardere nei boschi demaniali del suo comune. Se lo avesse fatto, avrebbe commesso un duplice sgarro: il primo, nei confronti della “femmina”, il secondo, verso la virilità e l’orgoglio di maschio. L’ammenda veniva quasi sempre saldata in natura. E poi, i cinquemila ettari di faggeta pura di cui era composto il demanio comunale, erano più che sufficienti per soddisfare anche le esigenze della povera gente dei paesi limitrofi.
All’età di otto anni, Cacchione, era già l’allievo prediletto del maestro Donato Gatta, noto musicofilo locale. Le scale cromatiche, gli arpeggi, i virtuosismi e tutto quanto non riusciva di facile esecuzione agli altri allievi, veniva regolarmente eseguito dalle indiavolate dita di Cacchione sulla tastiera della sua “Paolo Soprano” a centoventi bassi.
A quindici anni, eseguiva con disinvoltura la “Czardas” di Monti, la “Celebra mazurca” di Migliavacca” e il “Carnevale di Venezia” con la stessa bravura di Gorni Kramer e di Astor Piazzolla. A diciotto anni, era un fisarmonicista affermato e richiesto: laddove si festeggiava qualcosa, c’era lui con la sua fisarmonica.
Un giorno, però, decise di ingrandire “l’azienda”.
Le continue richieste di un concertino formato da strumentisti e cantanti (si fa per dire) specie da parte di comitati preposti alle celebrazioni di feste religiose nei paesi di mezza Irpinia, lo spinsero a raccogliere attorno alla sua bacchetta quegli elementi indigeni che, con qualche ritocco, avrebbero potuto fare al caso suo. Parlò di questo suo progetto con gli amici di tutti giorni mentre con essi sguazzava nelle gelide acque del fiume Calore. Era una calda giornata di luglio. I ciliegi che costeggiavano i sentieri che portavano al fiume, erano da tempo già stati spennati dall’orda dei bagnanti capitanati dal “Nero”. Lo stesso dicasi di fichi, prugne, mele novelle e ceci. Intere partite di fave venivano espiantate dal terreno da mani impietose, tanto da assumere l’aspetto di una steppa selvatica che mai seme avesse ingravidato.
La proposta di Cacchione fu accolta con entusiasmo da Gerry (il Nero, per via della carnagione scura), da Tony Cierro, da Tony Assodicoppa, da Giusy il batterista e da Michele, il fabbro, tromba solista.
Il Nero, preso da improvvisa euforia, si tuffò nelle livide acque del fiume pur sapendo di non saper nuotare. Eseguì il tuffo con tale vigore da sbattere la testa sul fondo pietroso. Fu Michele ad accorgersi della sua assenza. Quando, recuperato, fu disteso sul greto, la sua pelle olivastra assunse il colore delle sardine sott’olio. Si riprese subito, per fortuna, anche se un bubbone gli si era fatto largo tra i folti capelli lisci e scuri, come fili di catrame.
Mettere su un’orchestra, non era cosa da tutti i giorni. Era una impresa che, oltre all’impegno professionale, richiedeva un non indifferente impegno finanziario: per l’acquisto di microfoni, altoparlanti e relativo materiale elettrico occorrevano diversi soldoni. Dove prenderli?
<<A tutto c’è limedio, tlanne alla molte>> sentenziò in Nero, che pronunciava la erre come un cinese.
E fu lui a rimediare, come al solito, l’occorrente prendendo in prestito l’intero impianto di amplificazione che i socialdemocratici del paese avevano acquistato per i comizi elettorali.
Si deve sapere che il padre di Gerardo (Gerry, in arte e per gli amici) si prendeva cura, tra gli altri impegni, anche della sezione del partito socialdemocratico. E custodiva tutto ciò che ad esso apparteneva in un ampio stipone situato in un angolo dello stanzone ubicato a piano terra in uno stabile della piazza centrale del paese. Per Gerardo, aprire l’armadio senza ricorrere all’uso della chiave fu uno scherzo da bambini scemi, ovvero: di cameli com’era aduso dire quando intendeva offendere il prossimo. La mena, fu eseguita sotto lo sguardo torvo di Saragat, la cui effige troneggiava in un manifesto mutale.
<<Calo Peppe, è inutile che ci gualdi con labbia. Ola tocca a noi selvirci dei tuoi tlomboni, ti piaccia o no! Dobbiamo fale onole alla cultula. La nostla è una causa di intelesse sovlacomunale. Okey?>>.
E Cacchione:
<<Parole sante Gerà, parole sante>>.
E fu così che ebbe inizio l’avventura canoro-musicale del complesso: “Li Vagnulisi”
Il locale dove il complesso eseguiva le prove del concerto si trovava in un appartamento sfitto di Rione San Vito. Al microfono si avvicendavano i Big dello stesso, vale a dire: Tony Cierro, Tony Assodicoppe e tutti i Tony o pseudo tali che subirono il fascino di quel nome, che in America da Curtis a Franciosa furoreggiavano in cinematografia.
Era compito del Nero fare da talentscaut. Ma il fatto stesso che i Tony di ogni età aumentassero di giorno in giorno, come se prodotti da una fotocopiatrice, fece pensare al più scaltro Michele che quelle copiose audizioni, sotto sotto nascondessero qualcosa di “nero”.
Il sospetto era anche avvalorato dal fatto che, nel taschino della camicia di Gerardo, c’erano sempre sigarette per tutti e, all’occorrenza, anche qualche lira di dubbia provenienza. Non che Gerardo spacciasse droga, data la vita da artista che ormai conduceva. No, per amor di Dio! L’unica droga presente all’epoca nella zona, era il frutto di una pianta di canapa la cui coltura, una volta accertati gli effetti tossici della stessa sull’organismo umano, fu proibita dalla legge e definitivamente espiantata dai terreni di Laceno dove, spontaneamente, fioriva.
Il denaro nella tasca del Nero proveniva, invece, dalle tangenti che lui imponeva a coloro i quali, per ambizioni canore, gli chiedevano di sottoporsi a provino nell’auditorium (sic!) di Rione San Vito.
Quando don Pietro Mollica raggiunse, a cavallo del suo asino, la sala delle audizioni, la pianta organica canoro-strumentale del complesso musicale ”Li Vagnulisi” era già stata completata.
Don Pietro era un simpatico contadino di sessantadue anni. Abitava nella Piana dell’Ofanto, al bivio di Torella de’ Lombardi, con un centinaio di campagnoli ed altrettanti asini, mucche e maiali. Il motivo della sua calata a Bagnoli era scaturita dalla necessità’ di appagare un desiderio antico: festeggiare il Santo Patrono del villaggio, offrendo alla comunità del suo borgo il piacere di divertirsi al ritmo di una orchestrina che eseguisse musica popolar-leggera, volgarmente definita “liscio”, composta di gente che conoscesse bene il mestiere (e qui casca l’asino).
La fama della fisarmonica di Cacchione aveva raggiunto, quindi, anche l’Alta Irpinia.
Don Pietro, manco a farlo apposta, fu ricevuto, occasionalmente, proprio dal Nero.
<<Scusate tanto, signò. Cerco quel bravo guaglione che con l’organetto, è vero, se la cava molto bene. Io sono Pietro, don Pietro Mollica. Tantu piacere di fare la vostra canoscenza>>.
<<Don Pietlo, avete tetto? Un momento solo e vi chiamo il maestlo>>.
<< Caspita!>>, pensò don Pietro, <<Sono capitato proprio bene. Il fatto che ci sia anche uno straniero tra i musicanti è buon segno>>.
Quando Cacchione si presentò a don Pietro, quest’ultimo non potè fare a meno di assumere notizie circa l’origine del “forestiero” che lo aveva ricevuto. Cacchione, di fronte ad una richiesta così sincera, ruspante, fu costretto a svelare quello che doveva essere un segreto e una sorpresa per il pubblico.
Gerry, spiegò, <<E’ un abile presentatore di origine sudamericana. Vi delizierà, vedrete. E vi farà sbellicare dal ridere, tanto è bravo nel raccontare barzellette, specie quelle napoletane che, come sapete, hanno rotto il muro del suono e valicato i confini geografici>>.
<<Oh!>> sussurrò don Pietro. <<Mi dispiace tanto pe’ lu muro. Nun s’è fattu male nisciuno, spero?>>
Quella di Cacchione, fu una mossa abile. La presenza di uno straniero al microfono gli consentì di aumentare il prezzo del contratto che, virtualmente, fu poi concluso con una poderosa stretta di mani e un secchio d’acqua per l’asino di don Pietro.
La festa del Santo Patrono cadeva il dodici del mese di agosto. La troupe degli orchestrali continuò a provare e riprovare i pezzi da eseguire in quella storica occasione, pur essendo abbastanza affiatata. I cantanti solisti avevano in programma un vasto repertorio di musica leggera, formato per lo più da brani tratti dall’ultimo festival della canzone di Sanremo. Le canzoni napoletane, poi, non mancavano di certo: erano pane di tutti i giorni per quei giovani artisti: “Guapparia”, “Passione”, “Guaglione” e “Lazzarella”, canzoni preferite da Tony Cierro, soprattutto.
Anche il Nero si cimentava con “Torna”, ovvero: “Tolna” poiché, come dianzi precisato, il caro ragazzo aveva la fortuna di avere la “R” imperfetta che lo rendeva un po’ snob, proprio come l’avv. Agnelli.
Quando i “Professori d’orchestra” raggiunsero il luogo della festa, si era appena conclusa la processione di Sant’Eusebio. Già i primi colpi dei fuochi pirotecnici rompevano l’aria e i timpani quando gli artisti si avvicinarono al palco. Esso era stato edificato sotto un grande albero di gelso: una pianta maestosa ancora carica di frutto.
Gerardo, con aria professorale, si precipitò immediatamente sull’attavolato, per armeggiare con amplificatori e varie prese di corrente elettrica. La gente, sotto l’ombra cupa del gelso sedeva composta sugli scranni di legno, che don Pietro aveva sottratti alla cappella del Santo. Lui, invece, il “mastro di festa”, sedeva innanzi a tutti su una sedia dal fondo impagliato e, ogni tanto, rivolgendosi ai villici, per magnificare il complesso che stava apprestandosi all’esibizione canora (ma anche per dare risalto alla buona scelta da lui fatta in direzione di quegli artisti “tanto famosi anche a Napoli) accennava all’esotismo del presentatore creolo:
<<E’ molto bravo>> diceva <<Viene dal Pirù, vicinu alla Frangia>>.
Il Nero, quella sera, aveva bevuto parecchia birra. E quando beveva, non era soltanto la erre ad ammosciarsi, ma l’intero eloquio si calava in un impiastro di pece e catrame, ed era assai arduo allora cogliere il significato delle sue parole.
L’esordio di quella serata fu tutto suo:
<<Plonto plova, plonto plova…uno…due…tle. Ahia! Pel Clisto! Ho pleso la collente>>.
Lo spettacolo lo iniziò Tony Assodicoppa, che cantò “La colpa fu”, famosa canzone di Orietta Berti. Quindi, molto applaudito, Cacchione eseguì la “Celebre mazurca di Migliavacca”. Ma quando Gerardo cantò “Torna” i fischi ebbero l’effetto degli ultrasuoni facendo cadere i frutti dell’anziano gelso sul ruspante complesso canoro, insanguinandolo.
Il colpo di grazia al tragicomico spettacolo lo diede, infine, Toni Cierro che, inspiegabilmente, ripropose al pubblico, già accalorato per ovvi motivi, la già eseguita “La colpa fu”.
A questo punto, don Pietro, levatosi in piedi sulla instabile sedia impagliata, cominciò a gridare a squarciagola:
<<La colpa è la mia che v’aggiu chiamatu! La colpa è sulu la mia!>>.
Le cose si sarebbero messe male se Cacchione, con la sua bravura, non avesse chetato le acque intonando le vibranti note del “Volo del calabrone”, pezzo classico per fisarmonica, che costrinse gli attoniti contadini a rincorrere nell’aria frizzante, pregna degli aromi del fieno e dello stallatico, il ronzio dell’insetto fin nella campagna buia.
Tutto finì bene.
Don pietro pagò sull’unghia fino all’ultima lila, pardon: lira.
Antonio Cella
(da Fuori dalla Rete, Dicembre 2019, anno XIII, n. 5)
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