(Elezioni Regionali e Amministrative Bagnoli 1970).
Erano più o meno le ore ventuno, quando Gerardo Stuta raggiunse la Piazza. Quella sera non aveva toccato cibo. A niente servirono le insistenze della moglie affinché mangiasse qualcosa: avvertiva un peso allo stomaco e, nonostante ciò, fumava insistentemente. Il vizio, quel giorno, era più forte di lui. La causa dei disturbi di Gerardo non era ascrivibile al cibo ma a tutt’altra cosa. L’origine era da imputare sicuramente al “nemico” politico, sindaco uscente, presente in piazza, pronto a dar il benvenuto ai migranti appena giunti in paese.
Il cielo, quella sera, era di una bellezza straordinaria. Aveva qualcosa di fiabesco che riportava all’infanzia. Somigliava tanto a quello che i ragazzi collocano sul presepio di famiglia: vivo, trasparente, grande ed infinito, racchiuso in un lenzuolo di seta turchino, drappeggiato di stelle di cartastagna, tra cui la fantasia e l’immaginario incantato di grandi e piccoli correva su un’astronave ancora di Verne, e richiamava lo scenario delle spiagge amalfitane sempre pregne di grappoli animati, infarinati di schiuma e, più in là, la nevrastenica orda di tifosi festanti, figli del “ciuccio”, nella bolgia infernale dello stadio San Paolo.
La Piazza era stracolma di giovani, che vestivano con opulenza insolita: cravatte sgargianti, mini gonne da sballo, calze di nylon dal fruscìo provocante. Erano i figli del benessere svizzero e germanico ad esporre il meglio dei prodotti made in Italy. Gerardo Stuta, scrutò uno ad uno gli uomini che un tempo avevano goduto i favori dello scudo crociato. Nessuno gli porse la mano. Si sentiva estraneo tra gente conosciuta, che pareva dicesse:
“Chi sei? Cosa cerchi” Nel passato ti abbiamo ampiamente ricompensato con sigarette e cioccolata. Ora siamo liberi di votare per chi ci pare!”
Erano tutti lì, nella stessa piazza, dove un tempo non remoto, appollaiati tra i rami dei lecci, recriminavano al suo passare l’intervento del partito di cui lui, Gerardo Stuta, era il custode più significativo: ora in Questura ad Avellino per il rilascio di un passaporto, ora alla stazione dei carabinieri per la revoca di contravvenzioni per schiamazzo, bestemmia e sevizie varie. Gente che strusciava irriverente sotto il pensiero recalcitrante dell’uomo che rivendicava, nunc quam tunc, la stessa riconoscenza, la stessa obbedienza, la stessa sottomissione feudale di un tempo ormai scaduto.
“Una volta erano tutte pecore del mio gregge! Le ho sfamate, curate avviate verso pascoli sufficienti. Ora, mi passano sotto il naso ignorandomi. Mi evitano, come se prese dalla paura di essere divorate. Guardali, Gerardo, goditi il tuo capolavoro. Ieri brucavano aria, timidi e supplichevoli; oggi, più non temono la coda del cane e, disinvolti, scialano nella cornice opulenta, ignorando la mano di sale dell’antico pastore”.
A detta del Savinio, fratello del più noto De Chirico, i grandi pittori come Leonardo, Picasso, Raffaello etc., si chiamavano pittori in quanto praticavano professionalmente l’arte del dipingere, ma che avrebbero potuto scrivere o comporre musica senza perdere un milligrammo di valore. Uomini dal raro valore, capaci di sottomettere al loro volere, alla loro contagiante empatia, papi, re e politici potenti. La simpateticità che intercorre tra pittura e poesia, tra musica e poesia, tra amore e poesia, è nozione comune. Infatti, melodia, parole e immagini si integrano a vicenda, interagiscono e si condensano in una unica arte.
Tommaso era uno di questi: colto, eclettico, pieno di iniziative. Lo si incontrava spesso per le strade a raddrizzare idee, a sgrossar pregiudizi, e, soprattutto, a insegnare la verità. Aveva il carisma del maestro d’altri tempi, che incantava gli allievi e le masse, un uomo che diceva quello che pensava e pensava quello che diceva. Una figura pregna di una fruttuosità incredibile per il partito. Polarizzava intorno a sé l’attenzione del bracciante, della casalinga, del pastore e del commerciante. I professionisti, (quelli non gelosi del bagaglio culturale e umano di Tommaso) lo ascoltavano con deferenza. Era lui il leader politico e morale di tutta la sinistra bagnolese; era, come dicono gli sportivi, il trainer, la locomotiva, l’accomodante. Fu opera sua se i socialdemocratici in tanti anni di politica, e nonostante l’avversione ideologica, gli sono stati sempre vicini nel governo del paese; fu opera sua se i socialisti nenniani, da cui scaturiscono le sue vere origini, si sono espansi sul territorio Irpino; fu opera sua se, nonostante lo sgarbo geografico, a Roma, a Napoli e in mezza Italia, si parli dell’Altopiano Laceno, delle sue nevi, della sua natura selvaggia.
Era esplicito nel pensiero, illuminato dai valori profondi della cultura e da quelli nobili e generosi del rapporto umano. Ma sapeva recitare bene anche la parte del duro:
“Parlare per eufemismi non serve, anche se praticamente è l’unica forma di comunicazione in uso in questo paese. Dirò, quindi, senza circonlocuzioni: siamo un branco di pecoroni. E’ opinione comune che la colpa dei mali sociali che inaridiscono le idee e il paese non è da ascriversi alle persone, ma al sistema. Non è così! Io non sono d’accordo! Il sistema è composto da persone pensanti e, in quanto tali, ad esse va imputato in cattivo uso dei lumi e il conseguente degrado della società umana. Si! E’ proprio così! Perché? Perché, vedete, vi faccio un piccolo esempio, se il farmacista che ha guidato per anni l’esecutivo del nostro Comune si fosse peritato un po’ presso i Ministeri quando miscelando intrugli sindacheggiava, oggi Bagnoli non avrebbe invidia della fruttuosa industrializzazione di alcuni paesini del Nord, e tu, malandrino, non abbatteresti contro legge i faggi del nostro demanio boschivo ma saresti un dipendente dell’azienda municipalizzata del legno bagnolese. Avresti usufruito così di larghi benefici sociali e, almeno superficialmente, della decenza poiché la tuta blu dell’ipotetica azienda ti avrebbe insaccato le carni. La colpa è degli uomini, perché? Perché questo isolamento, queste discriminazioni geografiche, che fanno del Nord l’Italia e del Sud l’Africa più nera, questo atomismo sociale che ci sprofonda nelle caverne dell’homo homini lupus, e il fatto stesso che tu convivi con capra e sette figli in una capanna in cui il più lurido zio Tom d’America non azzarderebbe a calarsi le brache, ne sono la prova di evidenza palmare. Perché? Perché la nostra è una miseria voluta, perché pecchiamo d’iniziativa, perché siamo quel che siamo, senza testa né coda. La colpa è degli uomini perché non ti hanno fatto capire che mettere al mondo sette figli in un paese come il nostro vuol dire farsi ipotecare l’anima dal diavolo, se davvero esiste”.
Don Candido, il prete biancofiore, non si era fatto trovare impreparato. Aveva orchestrato gli incontri con i migranti e con il resto degli elettori stanziali con meticolosità. Si era servito delle mogli per contattare i mariti, dei mariti per convincere le mogli più refrattarie e dei figli, che frequentavano la parrocchia, per intrappolare entrambi.
Il sermone che lesse e commentò durante la messa vespertina servì soprattutto ad oliare i cardini di certe porte mai apertesi al passaggio di Sullo, referente dell’Irpinia-bene, che sapeva quanto fosse ostico disarcionare dal suo scranno un sindaco con le palle come Tommaso. Lui, Don Candido, era perfettamente conscio che fare politica in chiesa era un sacrilegio. Volle tentare, tuttavia, con le dovute cautele, di servirsi del fattore religioso per rubare consensi alla lista antagonista della D.C., come ampiamente sperimentato nell’abitazione di Mammannina Capone, vedova del compianto Angelo Antonio, segretario emerito nonché co-fondatore della sezione locale del PCI che, nonostante la raccomandazione fattale, prima di partire per la Germania dal nipote Pinuccio, cadde maldestramente nella rete del predatore col saio:
“Non lasciarti magare dal simbolo di Cristo. La religione non c’entra. Non ha niente in comune con la politica. Apponi la giusta croce sulla Colomba, e vai tranquilla. E’ il nonno che lo esige! Lui guiderà la tua mano, per il mio bene.”
Ma, quando si ritrovò davanti al servitore della Chiesa che, con il volto stravolto e gli occhi fuori dalle orbite, imprecava:
“Cosa vuoi che ne sappia il tuo Pinuccio della religione e della politica. Gli hanno inquinate la mente e l’anima di eresie. Sono certo che la buon’anima di tuo marito, pace all’anima sua e salute a noi, dai comignoli incandescenti dell’inferno aspetti una tua prece a sollievo di pene atroci. Vieni, donna. E’ il momento della preghiera. Ti accompagneremo verso la giusta via, sempre fulgida di verità e amore. Asciuga da buona Veronica, con il panno della redenzione, il sudore di lava che scava l’anima peccatrice del defunto. Egli ti chiama. Non lo senti? Ti chiede aiuto!”.
Don Candido pronunciò quelle parole con le mani levate e, per assumere l’espressione ascetica, ieratica, si ammaccava col piede destro il callo sull’alluce del piede sinistro, che gli dava tanta sofferenza al solo contatto del cuoio della scarpa, che in quel punto gli si era incupolito. Recitò talmente bene la sua parte da commuovere la donna, spingendola a seguirlo:
“Pinuccio è giovane. Ha tempo per scegliere e per capire il bene e il male. Sono vecchia e peccatrice, Dio mi perdoni: andiamo, Don Candido, sono pronta”.
E, ritornando al sermone tratto dal Vangelo di Luca:
“In quel tempo si erano accostati a Gesù pubblicani e peccatori per ascoltarlo. E scribi e farisei mormoravano dicendo: ecco che questi riceve i peccatori e mangia con essi. Allora egli disse questa parabola: chi di voi avendo cento pecore, perdutane una non lascia le novantanove nel deserto e va in cerca di quella che si era smarrita finché non la ritrovi? E, come l’avrà trovata, la pone tutto contento sulle sue spalle e, tornato a casa, raduna gli amici e i vicini dicendo loro: congratulatevi con me perché ho ritrovato la pecorella che si era smarrita. Ed io dico a voi che in Cielo vi sarà più gioia per un peccatore che fa penitenza che non per novantanove giusti che non hanno bisogno di penitenza.”
Il commento fu breve, ma saturo di sapori e doppi sensi:
“Il cielo è paurosamente deserto. Dio è in collera, per questo. Le pecorelle smarrite sono tante, che più non si contano; e pochi sono i pastori che chiedono ad amici e vicini di festeggiare con loro il ritrovamento di esse. L’indifferenza, l’immoralità, l’ipocrisia vi hanno portato fuori dal sentiero che conduce alla penitenza. La vostra salvezza giace là, tra i suoi ciottoli, tra i suoi rovi, tra le sue spine. E’ facile raccoglierla: basta che percorriate, sinceramente pentiti, il corso di quel sentiero. Pentitevi peccatori! Seminate il cielo di gioia. Congratulatevi con amici e vicini per il ritrovamento della fede.
Oggi affronterete la grande prova: le urne. Avrete a disposizione, ancora una volta, il necessario per ricrocifiggere Gesù: croce, martello e chiodi. Abbiate misericordia delle sue carni e pietà per le vostre anime. Pensate alla loro candidatura in Paradiso, tra la gioia degli Angeli”.
Antonio Cella
(da Fuori dalla Rete, Luglio 2019, anno XIII, n. 3)
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