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L’anno 1861 segnò l’unità della penisola italiana precedentemente divisa. Contemporaneamente, e in un apparente paradosso, parte della popolazione lasciava la Penisola. Sono 14 milioni durante questa “Grande emigrazione” che si protrae fino alla vigilia della prima guerra mondiale. Mentre saranno più di 20 milioni, tra il 1860 e il 1960 ad attraversare l’oceano alla ricerca, se non dell’eldorado, almeno di una vita decente. Le difficoltà economiche furono le cause di questo “Ulisse collettivo” uno dei movimenti migratori di casa nostra più importanti dell’era contemporanea. Molti uomini partivano da soli, lasciando i loro figli, le loro mogli, le loro mamme in trepidante attesa di notizie, di una lettera, subito seguita da una risposta inevitabilmente “via aerea”. Notizie che spesso impiegavano almeno un mese.
Ricordo di quel trucchetto che mi permetteva di utilizzare lo stesso francobollo più volte: prima d’incollarlo sulla busta da inviare a papà, emigrato in Venezuela negli anni 50, gli strofinavo sopra del sapone; poi gli chiedevo di rinviarmelo, così passandolo sotto l’acqua il timbro spariva. Come si dice: “Mater artium necessitas”, proverbio latino dalla facile traduzione: “La necessità è la madre delle abilita”.
La vita dei nostri emigranti oltreoceano non era sicuramente semplice: in Sudamerica venivano definiti “gli invasori dalle pelle olivastra”, mentre in Australia addirittura “una razza inferiore”. Negli Stati Uniti, che da poco avevano abolito la schiavitù, si diceva che gli italiani non erano bianchi, ma nemmeno palesemente negri. Di certo, una stirpe di assassini, anarchici e mafiosi.
Il presidente USA Richard Nixon intercettato nel 1973 fu il più chiaro di tutti. Disse: “Non sono come noi. La differenza sta nell’odore diverso, nell’aspetto diverso, nel modo di agire diverso. Il guaio più grosso è che non si riesce a trovarne uno che sia onesto”. Ma ormai, inizio 1960, si era aperta una nuova rotta verso l’Europa del Nord: Francia, Inghilterra, Belgio e poi Germania e Svizzera (dove chi scrive approda nel gennaio del ’69). I due decenni 60/70, sono per quell’Europa e l’Italia del Nord gli anni del più rapido sviluppo economico, in cui è relativamente facile trovare un posto di lavoro. L’Italia solo in quel ventennio “esporta” nei paesi europei oltre due milione di lavoratori, fra i quali circa i 2/3 provenienti dal Sud.
Ho ancora nella mente un’articolo di inizio anni ’70 sul quotidiano ginevrino La Suisse: “Un petit peuple souverain se sent en danger: on cherchait des bras, sont arrivés des hommes!” (“Un piccolo popolo sovrano si sente in pericolo: cercavamo delle braccia, sono arrivati degli uomini”), e continua: “Sono uomini che non divorano il benessere. Anzi, sono indispensabili al benessere stesso del popolo svizzero e di riflesso al loro. Ora sono nelle nostre città, abbiamo aperto loro le frontiere: sono persone che lavorano in un paese straniero, perché nella loro patria non avevano possibilità di vivere degnamente”. E ancora: “Parlano un’altra lingua, ma non si può volergliene perché la lingua che parlano è una delle nostre quattro lingue nazionali; pur se delle volte il loro dialetto è incomprensibile. Questo rende le cose un po’ più complicate, ma abbiamo talmente bisogno di loro!”
Così la Svizzera assistette ad una immigrazione di massa che, da una parte fu indispensabile per la ricostruzione dell’Elvetica patria, dall’altra poneva il problema del cosiddetto inforestierimento (tedesco: Überfremdung; francese: surpopulation étrangère). Nel 1963 in Svizzera più di dieci abitanti su cento erano stranieri. Infatti, nella politica della Confederazione iniziano a serpeggiare opinioni xenofobe nei confronti degli stranieri, soprattutto nella Svizzera tedesca. Nel 1965 venne lanciata una proposta dal partito democratico del Canton Zurigo, “contro il sovraffollamento straniero”, che venne poi ritirata qualche anno dopo. La più importante è però l’iniziativa Schwarzenbach (dal nome del suo promotore), lanciata nel 1969 per la limitazione a un massimo del 10% della popolazione straniera su quella totale della Confederazione. Numerose furono le polemiche e le discussioni a proposito di questa iniziativa, che venne infine bocciata da una votazione popolare nel 1970.
Gino Di Capua
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