Quello che segue è un simpatico racconto scritto dal dott. Francesco Lo Monaco, chirurgo generale presso il 1° Policlinico di Napoli e poi presso l’ ospedale civile di Taranto, oggi in pensione.
Il racconto ha come sfondo le vacanze estive del 1975 trascorse sul Laceno dall’ autore in compagnia della moglie Mirella. I Lo Monaco alloggiano presso l’ hotel 4 Camini, in questa circostanza nasce una sincera amicizia con Tommaso Aulisa e la sua famiglia, che continua ancora oggi a distanza di quasi cinquant’anni, e con Nello Nicastro che una mattina gli proporrà di visitare le grotte del Caliendo…
Per motivi di spazio il racconto è stato suddiviso in tre parti che saranno pubblicate ogni martedì a partire da oggi. Buona lettura.
La Redazione
L’incubo fantastico… di una giornata a Laceno
(Parte Prima)
Al mattino entrai nel bagno appena alzato. “Che facciamo oggi di bello?”, chiesi con voce assonnata a quel tipo riflesso nello specchio coi capelli arruffati, le braccia stiracchiate in alto e la bocca spalancata in uno sbadiglio sguaiato. La notte avevamo dormito poco, ma profondamente, dopo una serata tirata fino a tardi a cantare di tutto con i pochi accordi che sapevo prendere sulla chitarra. Era l’agosto del 1975. Con mia moglie Mirella in attesa della nostra prima figlia mi trovavo in vacanza nel cuore dell’Irpinia, sull’altipiano Laceno, in agro di Bagnoli Irpino, in provincia di Avellino.
Le guide turistiche così descrivono questo luogo: <<Laceno è un’incantevole località che si estende su una vasta area boschiva di montagna nel contesto del Parco Nazionale dei Monti Picentini, situata a oltre 1050 m di altitudine. L’altipiano che la caratterizza è centrato da un lago, il Lago Laceno, di origine carsica, alimentato dal torrente Tronola. Lo specchio d’acqua, attualmente ampio poco più di un grosso stagno durante l’estate, ha raggiunto la sua massima espansione nel pieno inverno fino al 1980, anno in cui il terremoto che ha colpito l’Irpinia ne ha progressivamente ridotto la superficie a causa delle falle apertesi nel sottosuolo lacustre e nella zona della sorgente del torrente>>. Tutt’intorno al lago si dispiegano le montagne, tra le quali svettano per maggiore altezza il Monte Cervialto (1809 m.), il Monte Rajamagra (1667 m.), il Monte Cervarolo (1546 m.) e la Montagna Grande con i suoi 1509 m.>>
Alloggiavamo nell’Hotel 4 Camini, una struttura moderna e confortevole a conduzione familiare che i proprietari, Tommaso ed Evelina Aulisa, avevano realizzato con molti sacrifici, in ordine ad un programma di rilancio turistico del territorio promosso dall’amministrazione comunale. Loro e le tre figlie, Mariangela, Pinuccia e Gabriella, ciascuna con un compito consono alle proprie attitudini, si rapportavano ai clienti, anche ai più esigenti, con spirito di servizio garbato, cordiale e tollerante. Messa in stand by la casa residenziale di Bagnoli per motivi di praticità, l’albergo era diventato la loro dimora stabile. Perciò qui erano soliti ospitare gli amici che, su invito o spontaneamente, andavano a far loro visita.
In verità, nessuno si faceva molto pregare perché lì ognuno si sentiva ben accetto e libero di godere del benessere offerto dalla natura amena del posto. Qualche volta capitava che per passatempo, o per spirito di collaborazione nei momenti di maggior afflusso di clienti, si dava una mano alla reception, al bar oppure ci si recava in paese col furgone ad approvvigionarsi di qualche derrata per il ristorante. E, in queste occasioni paradossalmente io e Mirella diventammo amici per caso, grazie a Mariangela e Pinuccia, due simpatiche e generose ragazze, l’una studentessa in medicina, l’altra in lingue straniere, conosciute a Napoli ai tempi dell’università.
Con esse sin dal primo istante si creò un bellissimo rapporto di amicizia sorretto da rispetto reciproco, che nel corso degli anni si rinsaldò in un vero e proprio attaccamento fraterno. Quelli universitari furono anni bellissimi che trascorremmo gran parte insieme in Vico S. Marcellino 5, dove ci ospitarono anche con la nostra bambina appena nata, alla quale riservarono cure e affetto degni di una madre stessa.
Evelina, la mamma, donna semplice, concreta, schietta, infaticabile, ottima cuoca scrupolosa e intransigente nella gestione della cucina, che aveva fatto diventare l’autentico fiore all’occhiello dell’albergo. E poi Tommaso, il papà roccia, un galantuomo d’altri tempi, schivo, fattivo, generoso e leale, strenuo difensore dei propri ideali tanto nella vita privata quanto in quella pubblica. Nella veste di uomo politico e di Sindaco fu stimato e riverito per la sua onestà intellettuale che gli è valso il ricordo indelebile di tutti i suoi concittadini.
Quella mattina per coinvolgere i presenti in un discorso di carattere tipicamente vacanziero, al tavolo della colazione rifeci ad alta voce la domanda “che facciamo di bello oggi?”, e Nello Nicastro, un simpatico ragazzo bagnolese, per risposta mi propose una escursione nelle vicine Grotte del Caliendo, situate nel massiccio del Monte Cervialto. Le foto al riguardo inserite nel dépliant dell’albergo mi avevano sempre suggestionato per la loro particolare bellezza. Per convincermi, me la fece facile su tutto. Lui le aveva ispezionate altre volte, e ciò fu la garanzia che mi indusse ad accettare la proposta.
Le mie amiche, dal canto loro, a sostegno della occasione da non perdere, mi rassicurarono sulla fattibilità del programma e sulla affidabilità di chi ne aveva lanciato l’idea. Mi pervase subito una infantile euforia. Le grotte, per mancanza di agibilità in sicurezza, non erano accessibili al pubblico, perciò chiesi ragguagli sulle loro caratteristiche naturali e consigli minuziosi sull’equipaggiamento del quale dotarmi. Mi accorsi, però, dalle bonarie risatine degli astanti che avevo ecceduto nelle richieste di informazioni, e che avevo dato di me l’immagine di chi è vissuto in luoghi di mare e non è avvezzo alle montagne né tantomeno ai criteri fondamentali per rapportarsi ad esse. Mi dettero ad intendere che non sarebbero occorse nozioni e capacità speciali per fare una semplice passeggiata nel bosco e una capatina alle grotte.
Delle grotte del Caliendo avevo sentito parlare spesso Don Tommaso, tra i fautori più impegnati della loro esplorazione sistematica che nei primi anni ’60 fu affidata al Circolo Speleologico Romano. E mi ricordavo delle insidie da lui stesso descritte, affrontate, e superate – qualche volta in maniera rocambolesca – durante le sue spedizioni “fai da te”. Ma fui – o forse volli essere – più propenso a farmi prendere dalla facile prospettiva del mio amico, anziché dai moniti alla prudenza insiti negli aneddoti raccontati dal Sig. Aulisa.
C’era un sole splendente e faceva molto caldo. E allora, per non essere di nuovo giudicato esagerato nelle inutili precauzioni, sopra una camiciola sbracciata di cotone e un paio di blue jeans mi limitai ad annodare in vita per le maniche un maglioncino di lana. Ai piedi calzai il mio paio di scarpe da tennis da passeggio, e, più per istintiva previdenza che per calcolata misura di sicurezza, alla cintura dei calzoni agganciai una torcia a pile, e poi… nient’altro.
Non mi ero di certo attrezzato alla Rambo, ciò nonostante registrai al mio indirizzo ancora qualche battutina di sfottò sotto voce, questa volta in merito al maglione di lana ritenuto fuori tempo per la stagione e soprattutto per quella calda giornata. Accusai con nonchalance.
Partimmo. Dopo alcuni chilometri di tornanti, lungo la strada montana Colle della Mulella –Valle Piana, fermammo la macchina ai margini della carreggiata. Ci buttammo giù per un crinale ricoperto da fittissimo bosco, privo di qualsiasi indizio di sentiero segnato o battuto. Le scarpe da tennis presto cominciarono a mandarmi le prime avvisaglie della cavolata che avevo fatto non munendomi di scarponi da montanaro. Nello procedeva con passo spedito con i suoi dotati di carrarmato, mentre io cercavo di tenergli dietro, franando e frenando ogni tanto col culo a terra. I suoi sorrisetti beffardi mi irrobustirono l’impegno di ridurre al minimo inevitabile le brutte figure.
L’aria frizzantina del primo mattino miscelata all’odore intenso del muschio spalancava i polmoni ad un benessere speciale. Procedendo a zig-zag fra i faggi slanciati, scendemmo di quota gradatamente finché raggiungemmo l’orlo di un dirupo, la profonda forra del Vallone Caliendo. Il terreno era scosceso e sdrucciolevole. Con cautela mi sporsi per spiare nel vuoto. Cribbio! Fui colto da un tremito che mi attraversò tutto il corpo. Sotto c’era uno strapiombo di ben oltre un centinaio di metri racchiuso fra due aspre pareti rocciose contrapposte quasi a picco. D’istinto indietreggiai di qualche metro e mi puntellai con un piede contro un masso. In quella posizione precaria attesi dubbioso e silenzioso istruzioni. Con un cenno della mano Nello mi indicò la direzione da seguire.
Riprendemmo la marcia. Avanzavo guardingo nonostante camminassi sotto dettatura. Per saggiare il mio senso di orientamento con quelle poche nozioni elementari apprese da ragazzo quando facevo il boyscout, tentai anche di prevedere la direttrice dei nostri movimenti. Macché! Niente m’era d’aiuto in quell’intrico di vegetazione.
Perciò non mi restò che scegliere come bussola gli scarponi di Nello. Allontanarsi dal burrone era ciò che mi sarei aspettato. E invece no! Stavamo solo spostandoci lungo il suo ciglio accidentato. Allora mi addossai di più al mio battistrada e, come se dovessi attraversare al suo seguito un campo minato, ebbi cura di ricalcare esattamente le sue orme per non distaccarmene neanche di un centimetro. Ad un tratto, dopo aver superato degli alti cespugli, dinanzi a noi si stagliò imponente uno sperone di roccia sporgente sul baratro.
Pensai: <<E’ uno sbarramento invalicabile. Non c’è scelta: o si fa dietrofront e si rinuncia all’escursione, oppure si va giù nella scarpata!>>. La faccenda stava diventando molto più seria di quanto avessi immaginato. Ma il dilemma non mi tormentò più di tanto perché, senza alcuna anticipazione e con ingannevole indifferenza, il mio amico mi indicò una specie di scala a pioli di ferro gettata a ponte su un largo e profondissimo crepaccio che si apriva proprio sotto lo sperone roccioso. Quell’arnese abbandonato all’incuria del tempo era lungo una decina di metri, largo non più di 40 cm, con montanti tubolari in parte corrosi dalla ruggine. Capii che dovevamo servircene.
Francesco Lo Monaco
Continua…
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