L’incubo fantastico… di una giornata a Laceno (Parte Terza)

di Francesco Lo Monaco

Parte terza

Ci incamminammo. In me montò la stessa eccitazione che prende l’archeologo mentre sta per essere rimosso l’ultimo blocco di pietra che ostruisce l’accesso alla tomba di un faraone o di un antico re. Senza volerlo, abbassammo il volume della voce. Quella pace austera e solenne esigeva rispetto. Soltanto alle gocce d’acqua che cadevano dall’alto era concesso il diritto di far riecheggiare i loro rintocchi cristallini nelle pozzanghere sparse qua e là. Percorremmo cunicoli angusti e tortuosi. Penetrammo in fenditure della roccia con la pancia tirata in dentro per meglio vincerne la strettezza. Non pochi sforzi occorsero per arrampicarci su alcuni balzi e da lì discendere senza ruzzolare. Alcuni anfratti a forma di sifone presentavano un fondo limaccioso e ciò era segno che essi venivano sommersi dall’acqua, probabilmente d’inverno o in periodi di piovosità intensa. In passato il fenomeno, per la rapidità con cui a volte si era manifestato, aveva trasformato quei budelli in trappole insidiose per qualche improvvisato esploratore.

La nebbiosa percezione visiva dovuta allo scarso potere illuminante della torcia non mi impediva di apprezzare –  a volte solo di intuire – la incomparabile spettacolarità di quel complesso ipogeo. Ogni palmo di quella pietra dalle sfumature che andavano dal grigio all’ocra era un capolavoro d’arte di madre natura, un tassello di un immenso mosaico a immagine di paesaggi e di creature d’altri mondi. In certi momenti avevo la sensazione di essere stato veramente ingoiato da un gigante, di percorrerne le cavernose budella e di lambirne gli umori cristallizzati. Quelle suggestioni che mi stavano imperlando la fronte di sudore emotivo non mi fecero accorgere che i jeans erano zuppi d’acqua gelida e fangosa fino alla cintola e che i piedi nelle scarpe bagnate gracidavano ad ogni passo. Avanzammo ancora. Da sotto un arco corrugato da bianchi mammelloni iridescenti accedemmo ad un enorme antro.  Mi parve di entrare nel salone delle feste di un castello dai fastosi trascorsi, ora diroccato e abbandonato alle scorribande dei fantasmi.

Concrezioni calcaree a forma di ragnatele, le pareti ricoperte da minuti drappeggi dai riflessi del vetro e dell’alabastro, armoniose teorie di pendenti a forma di candelabro sulle volte evocavano i fasti di un nobile passato. La fantasia aveva ormai rotto gli ormeggi e si lasciava prendere dal vortice di quegli scenari impressionanti. Ed ecco che quelle stalattiti nodose e puntute incastonate di perline d’acqua per dissolvenza si mutarono in ghiaccioli alla frutta guarniti di rivoli rappresi di zucchero caramellato. Le stalagmiti, alcune bianchissime, altre screziate come luminosa giada gialla, assunsero l’aspetto dei getti pietrificati di una monumentale fontana ammutolitasi d’incanto per non disturbare il sonno millenario della bella regina di quel regno immaginario. “Nello, cosa provasti la prima volta che ti trovasti qui dentro?” … Dopo essersi assorto per alcuni istanti alla ricerca di una risposta sintetica ed efficace, non seppe dire altro: “Stupore”  e, dopo un’occhiata densa di ammirazione gettata tutt’intorno, mi voltò le spalle e proseguì. Un passaggio facile fra due massicci torrioni ci fece giungere in una caverna attigua, nella quale al buio si era sostituita una sorta di penombra che concedeva agli occhi una visuale a maggiore profondità di campo. Alzai lo sguardo verso l’alto. Da un grosso pertugio un fascio di luce veniva giù come una lama d’argento a fendere l’oscurità e a scuotere la sacralità di quella eterna notte. Eravamo giunti in prossimità di un’apertura secondaria della grotta. Quel buco luminoso pareva l’occhio gnomonico di una meridiana naturale. E chissà se non  servì come tale a qualche insediamento di uomini preistorici che di quel luogo avevano fatto il loro rifugio sicuro.

Mi giravo intorno e scoprivo altri arditi pinnacoli intarsiati di policrome venature  che incutevano soggezione al pari delle austere navate di una cattedrale o dei possenti colonnati di un tempio greco. Procedemmo oltre ed entrammo in un antro più piccolo in cui l’oscurità aveva riguadagnato potere assoluto. Decidemmo di ridurre all’indispensabile l’uso della lampada poiché dava  segno di imminente esaurimento delle pile. Facendo sempre i conti con il terreno scivoloso, a fatica giungemmo al culmine di una salita, dove su un tratto di parete liscia rinvenimmo un segno sbiadito di freccia orientato verso terra. Intuii che lì il passaggio sarebbe stato stretto e basso. Infatti il varco c’era, ad appena una cinquantina di centimetri dal suolo, ma si presentò ancora più angusto perchè quasi completamente ostruito da massi e pietrisco franati. Non avevamo caschi protettivi – figuriamoci! – eppure, distesi con la pancia a terra a turno infilammo cautamente la testa in una breccia per valutarne la transitabilità. Niente da fare, lo spazio era insufficiente. Avremmo potuto anche crearcelo spostando a mano qualche sasso ma, per il rischio di causare altri crolli, desistemmo. Ci spostammo in altre direzioni alla ricerca percorsi alternativi: non ne trovammo.

La torcia dava luce sempre più fioca, perciò convenimmo di accenderla per la sola ricerca dei riferimenti spaziali. Continuammo a camminare un po’ a memoria, e un po’ sfruttando il nostro visus acuitosi dopo ore di permanenza al buio. Intanto il freddo s’era fatto insopportabile, ma non abbastanza da farci desistere.  Il desiderio di farci sorprendere da altre scoperte sensazionali sminuiva ogni sorta di difficoltà. Accadde, però qualcosa che determinò una svolta nel nostro incosciente programma. Saltando giù dalla sommità di un tozzo rilievo sul quale mi ero arrampicato per avere una visione circostante più ampia, la torcia che avevo riagganciato alla cintola per avere le mani libere cadde per terra e si ruppe. Buona notte!… Lo sgomento riuscì a trovare un angolino ancora sgombro per annidarsi nell’affollata testa mia. Ma non ci perdemmo d’animo. Avevamo un accendisigari a testa, e, grazie a questi, riuscimmo a ridefinire il nostro punto di stazione. E’ stata quella l’unica volta che sono stato felice di essere fumatore e di condividere il vizio con un’altra persona.

Mentre Nello mi rassicurava che l’inconveniente non avrebbe comportato difficoltà eccessive, nel buio pesto ebbi la sensazione quasi tangibile di essere preso sottobraccio e di sentire una vocina che mi sussurrava all’orecchio: E’ ora di tornare indietro, se vorrai a qualcuno raccontare  questa avventura”.  Un attimo di perplessità, e, giusto il tempo per riordinare le idee secondo una sequenza logica, mi fu chiaro il significato di quell’allucinazione. Illuminai con l’accendino il volto di Nello e “<<Game over>>, andiamocene!”  gli dissi, guardandolo fisso negli occhi. Con un cenno lui assentì. Il buonsenso, fino ad allora tenuto a freno dalla voglia dell’impresa esaltante, aveva domato finalmente la mia presunzione e la sua spavalderia. A sostegno della decisione maturata così all’improvviso concorsero due evenienze disgraziate che qualche istante prima mi ero prefigurato in mente. Due evenienze possibili ed inquietanti.

La prima: io scivolo e mi faccio male, tanto da non poter camminare. E’ impossibile essere  portato a spalla fuori della grotta o lungo il percorso accidentato del ritorno. La soluzione più ovvia è che Nello mi lasci, rientri alla base, dia l’allarme e organizzi il soccorso. Pazzesco! Quanto tempo sarebbe passato prima di essere portato in salvo? Ce l’avrei fatta a resistere senza cibo né acqua, al buio e a quella bassa temperatura?

L’altra ipotesi, ancora più sconcertante: le parti si invertono. Chi si fa male è Nello. Tocca a me, da solo, senza luce e per la prima volta,  ripercorrere all’incontrario tutto il cammino fatto fin là, orientarmi in un bosco che non conosco, inerpicarmi per i sentieri in salita con le mie scarpette da tennis, raggiungere l’albergo e chiedere aiuto. Il tempo di permanenza del mio amico nella grotta in quelle condizioni sarebbe stato certamente più lungo. Stetti a riflettere: <<Nello non ne ha tenuto conto, beato lui!>>, e conclusi che la misura della sua faciloneria aveva soverchiato di gran lunga la mia imprudenza.

Questi foschi pensieri dettero nuovo vigore ai brividi che già mi stavano scuotendo per il freddo. Perciò, con calcolato opportunismo lo esortai a salvaguardare soprattutto se stesso, riconoscendo alla sua incolumità una importanza prioritaria per entrambi. Avrei dovuto fare queste considerazioni prima della partenza, ma non le feci, anche perchè non avevo cognizione di ciò che mi avrebbe riservato la cosiddetta… passeggiata in montagna. Reputai il mio amico avventato, forse con troppa leggerezza e probabilmente perché non seppi cogliere in ciò che faceva una maestria istintiva e una maturità non al passo con la sua giovane età. A malincuore, ma senza rimpianto, ritenemmo conclusa lì la nostra spedizione. Con il prezioso aiuto dei nostri accendini pian piano ci riportammo all’aperto, finalmente alla luce del sole.

Il tepore dell’aria in breve mi cacciò di dosso l’umidità e mi restituì le energie nervose e muscolari in riserva da un pezzo. Lungo la via del ritorno gli ostacoli e le difficoltà dell’andata non mi sembrarono più tali. Le sensazioni forti che avevo provato mi tenevano in un piacevole stordimento. Ero felice perché, come a pochi, mi era stato accordato il privilegio di vivere un’avventura entusiasmante in un mondo sconosciuto, dove, pur con sussulti intrisi di trepidazione e di stupore, avevo ceduto per istinto primordiale al fascino dei suoi misteri. Quel giorno la natura grandiosa concesse a un homo piccolo piccolo, ma poco sapiens, di farsi giudicare sublime anche nel suo invisibile, concedendogli la soddisfazione della curiosità, giammai la pretesa della sfida.

Oggi, a distanza di circa trentacinque anni, il ricordo di quella giornata mi emoziona ancora. Nello Nicastro, il mio amico e compagno di quella spedizione “artigianale”  nel sottosuolo irpino, è diventato architetto. Vive a Bagnoli e fa parte del gruppo speleologico locale intestato a Giovanni Rama, il muratore che  scoprì la Grotta del Caliendo nel 1930 e dedicò la sua vita alla loro esplorazione. Con la stessa insopprimibile passione lui si dedica da anni allo studio e alla valorizzazione di questo stupefacente tesoro della natura che tanto impreziosisce la sua terra natia. A questo simpatico e intrepido “ragazzo” devo tutta la mia gratitudine.

Francesco Lo Monaco

Fine

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