L’oro nero d’Irpinia: il tartufo

di Antonio Ferragamo (Avig.mantepsei.it)

L’Irpinia, terra di mezzo tra il Mar Adriatico ed il Tirreno, pur essendo un’area non particolarmente estesa, in termini di chilometri quadrati, è terra di spiccata biodiversità che si esprime in modo estremamente variegato e plurimo. Esempio eclatante in tal senso, risulta essere una species di fungo, rectius tubero, o meglio tartufo, emblematica ed identificativa dell’Irpinia stessa, rinomato nel Mondo come tartufo nero di Bagnoli. Il tubero prende il nome dal comune irpino che ne è il maggiore produttore, avendo il suo habitat naturale proprio nell’area dei monti Picentini.

Il tartufo nero di Bagnoli risulta essere una varietà che venne analizzata e classificata già a partire dal 1800 ad opera del naturalista Carlo Vittadini proprio nella nomenclatura scientifica come Tuber mesentericum Vittadini o come viene meglio conosciuto come tartufo nero di Bagnoli Irpino. Si tratta di un fungo ipogeo, simbionte, che instaura un rapporto nutrizionale- funzionale con la pianta superiore, perlopiù in combinato a varie specie arboree come alberi di querce, carpino, faggio, acero, noccioli, conifere da rimboschimento come il pino e predilige terreni ricchi di calcare, mentre la maturazione e la raccolta avviene da settembre a maggio.

L’identificazione, tra le diverse species di tartufi avviene tramite il suo rivestimento esterno, definito tecnicamente peridio, che va dal nero al brunastro con marcate nervature simili a verruche, che danno l’idea proprio di una crosta o screpolatura. Per quanto concerne le dimensioni risultano essere estremamente variabili, da pochi grammi fino a forme che possono avere una grandezza considerevole, simile ad una mela di grandi dimensioni, arrivando anche a superare i cinquecento grammi.

A tal riprova, nel primo ventennio del secolo scorso, fu inviato un tartufo a Vittorio Emanuele III, Re d’Italia, del peso piuttosto considerevole di circa ottocento grammi. Il corpo fruttifero, inteso come massa interna del tuber, definito gleba o polpa si può presentare da colori che vanno dal giallastro, al grigio o al marrone, caratterizzato da venature bianche o comunque chiare, che richiama alla mente la membrana che ricopre l’intestino umano. Questo parallelismo tra la gleba del tuber ipogeo e l’intestino umano non è una pura allusione, tanto che etimologicamente Tuber Mesentericum deriva direttamente dal greco mesenterion, che significa membrana che avvolge l’intestino.

Dal punto di vista sensoriale, al gusto, il tartufo in questione, ha un sapore molto forte e sui generis, come tutti i tartufi d’altronde, con note leggermente amarognole, mentre all’olfatto rimanda all’odore del catrame, dell’acido fenico o dell’alcol iodato. La produzione del Tuber Mesentericum si attesta su numeri piuttosto importanti che si aggirano sui quindicimila chilogrammi a raccolta. Da diversi decenni, la sua fama ha varcato i confini provinciali e regionali, essendo molto apprezzato sia in Italia sia all’estero, in particolare, Germania, Gran Bretagna e Asia, soprattutto in Cina. A livello locale invece, quasi sempre a fine ottobre, per far apprezzare, valorizzare e commercializzare il prezioso tuber, si tiene a Bagnoli Irpino, una rassegna gastronomica-mostra mercato, particolarmente caratteristica che attira centinaia di visitatori da tutta la Campania oltre che suscita una massiccia partecipazione da parte degli addetti ai lavori ed espositori, avendo come location proprio le stradine e le piazze del centro storico di Bagnoli. In cucina si abbina, tagliato perlopiù a scaglie sottilissime, con alimenti semplici, della tradizione rurale come il pane duro locale, i diversi tipi di pasta secca o fresca di grano duro, in pendant perlopiù con tagliatelle, fusilli e orecchiette. Si sposa magnificamente anche con i formaggi irpini, soprattutto con pecorini e ricotte. Spesso viene anche degustato crudo, previa tagliata a fettine sottilissime, distribuito cum grano salis su diverse pietanze, per arricchirne il gusto e i profumi del piatto stesso.

Il tuber ipogeo viene portato alla luce grazie ad esperti tartufai che addestrano meticolosamente i loro ausiliari a quattro zampe. Il cane addestrato all’odore del tartufo viene iniziato fin dai primissimi mesi di vita. Percepito l’effluvio il cane inizia a raspare il terreno che cela il tartufo stesso, con entrambe le zampe anteriori e con sempre maggior foga ed avidità , fino a che non lo abbocca e lo porta nelle mani del conduttore, il quale  a sua volta lo premia per il lavoro svolto con crocchette o anche con pezzetti di wurstel, particolarmente graditi dai cani impiegati. Diverse sono le razze selezionate, alcune specifiche come il Lagotto Romagnolo, altre mutuate dall’ambito venatorio, perlopiù Bracchi o Espanol Breton, ma spesso fanno la differenza cani di taglia minuta e bastardini, insuperabili per potenza olfattiva ma di più difficile addestramento. Una volta recuperati dal terreno, il tartufo va spazzolato e ripulito dal terreno di risulta, con acqua calda e l’utilizzo di uno spazzolino. Per assaporarne in toto l’aroma e il gusto è consigliato consumarli freschi o comunque entro non più di una settimana dalla raccolta. Possono essere conservati in frigo per allungarne la conservazione, avvolti in carta assorbente uno ad uno e riposti in un contenitore ermeticamente sigillato sia per non disperderne il profumo ma anche per non “inquinare” gli altri elementi conservati in frigo che ne assorbirebbero immediatamente l’odore.

Il Tuber Mesentericum è espressione ed emblema del territorio irpino e si annovera tra i prodotti di nicchia  maggiormente apprezzati in Italia e all’estero.

Antonio Ferragamo (Avig.mantepsei.it)

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