Non credo sia ostentazione di erudizione, la mia, nell’evidenziare che, da uno sguardo retrospettivo sul ritiro delle armate tedesche dal suolo italiano dopo l’armistizio di Cassibile del settembre ’43, e dopo il fallimento di vari tentativi da parte delle milizie alleate (Francia-Inghilterra-Usa), di annientare le postazioni tedesche di stanza nelle immediate vicinanze di Cassino, gli alleati medesimi decisero di rinunciare all’operazione “Gustav”, potente linea fortificata per volere di Hitler che tagliava in due l’Italia dalla foce del fiume Garigliano, tra Campania e Lazio, fino ad Ortona nel frusinate, dove si erano concentrate le truppe tedesche fino a quando non fu abbattuta, nel febbraio ’44, l’Abbazia di Montecassino.
Opera deleteria, quella degli Alleati. Uno dei più grandi sfregi alla cristianità, perpetrati in Italia nel corso del secondo conflitto mondiale.
Immediatamente dopo l’abbattimento dell’Abbazia, ebbe inizio la marcia degli alleati verso il ricongiungimento con le truppe “testa di ponte” che stanziavano sulle spiagge di Anzio, per pianificare, insieme, la presa e la liberazione di Roma da ciò che restava delle armate tedesche.
Gli Alleati, a corto di uomini, per le gravi perdite subite nello sbarco sugli arenili della cittadina laziale e, in previsione dell’intensificarsi dei combattimenti da affrontare nell’Italia del Nord e successivamente in Normandia, avevano deciso di integrare il loro contingente bellico con forze immediatamente disponibili nelle brigate francesi. Forze, composte da combattenti berberi nordafricani di quattro diverse etnie: Marocco, Tunisia, Algeria e Senegal, e altre originarie di ventisette nazioni facenti parte del contingente del generale inglese Alexander in cui operavano anche Greci e Jugoslavi, che non aspettavano altro per vendicarsi degli Italiani, che li avevano aggrediti. C’erano, inoltre, i terribili Maori, i Gurkha e i Sicks assieme a delinquenti neri e bianchi, tirati fuori dalle galere con allettanti promesse di amnistia e, infine, anche un migliaio di Spagnoli “rossi” inquadrati nella “legione straniera”.
E, tra questo miscuglio e sottospecie di gente, erano anche presenti i famigerati GOUMIERS, da cui scaturisce la genesi degli avvenimenti storiche mi appresto a raccontarvi.
Gente abituata a vivere sulle montagne, pastori, piccoli agricoltori, privi di ogni forma di acculturazione, bestie viventi quasi selvagge, pronte a uccidere per un franco francese anche le proprie madri. Essi venivano rastrellati con azioni violente e sopraffazioni, con la forza, proprio per queste caratteristiche negative, e trasportati dai francesi a migliaia di chilometri dalle loro misere abitazioni, per compiere insieme violenze di ogni genere. Erano i famigerati reietti che il Marocco non aveva saputo umanizzare. Le loro azioni brutali, vanno inquadrate in questo contesto.
I goumiers, storpiatura francese del termine arabo QUM nel senso di banda, squadrone, vestivano in maniera particolare indossando una uniforme pittoresca, una specie di accappatoio in lana grezza a strisce bianche e scure che incuteva paura. Abituati alla vita dura di montagna, nel freddo e nella mancanza di cibo, venivano utilizzati dai francesi come carne da macello per gli assalti più sanguinosi. Consideravano la guerra come dimostrazione di coraggio; sgozzavano spesso i nemici catturati e affrontavano le linee tedesche all’arma bianca, senza paura di morire. E, tra le armi, preferivano un coltello largo, lungo e affilato, chiamato Koumia.
Fissato l’obiettivo da raggiungere, tutto quanto ciò che restava dell’armata alleata, con in testa gli specialisti dello stupro e delle violenze sessuali, una volta sfondata la linea nazifascista si diresse verso i monti Aurinci per scatenare l’inciviltà dei marocchini contro gli inermi abitanti dei paesi del Frusinate che, dopo le bombe, la fuga e la fame e dopo quattro mesi di paure per la distruzione di Montecassino, aspettavano, impazienti, l’arrivo dei “liberatori”. Grande fu la delusione di tutti, quando videro arrivare, al posto degli americani con le sigarette e le cioccolate, “Li diavuli”, che, appena sbarcati in Italia, diedero dimostrazione di che pasta erano fatti. In Sicilia, cominciarono a sequestrare donne del luogo, considerate “bottino di guerra”, e le portavano via come prostitute. Qui, i franco-africani si abbandonarono allo stupro di massa, senza distinzione di sesso.
La vergogna, però, che si compì nei paesi della Ciociaria toccò apici clamorosi e devastanti. Spronati dal loro Comandante, Alphonse Juin che, per il solo scopo di incentivare e caricare le sue truppe prima della battaglia, faceva promesse allucinanti, come si evince da uno dei suoi discorsi:
“Oltre quei monti degli Aurunci, oltre quei nemici che stanotte ucciderete, c’è una terra larga e ricca di donne, di vino e di case…Se voi riuscirete a passare oltre la linea senza lasciare vivo un solo nemico, il vostro generale vi promette, vi giura, vi proclama che quelle donne, quelle case, quel vino, tutto quello che troverete, sarà a vostro piacimento e volontà per cinquanta ore”.
Gli uomini che cercavano di difendere le loro donne, venivano uccisi. Ed erano costretti di assistere alla vergogna di vedere le loro figlie, anche se minorenni, e le loro mogli gridare sotto gli spasmi del disonore, delle violentazioni brutali. Il parroco di Esperia, dove furono stuprate più di 900 donne tra gli 8 e gli 85 anni, nel tentativo di fermare l’obbrobrio e la furia dei goumiers, fu legato e sodomizzato gravemente, tanto che a causa dell’abuso subito da parte di quegli “esseri inumani”, morì dopo un paio di anni. Molte cose, pero, sfuggono. C’è carenza di dati certi sui misfatti e sulle angherie vissute realmente da quella gente sfortunata, e anche per la ritrosia delle donne che, per pudore, tacevano lasciandosi tormentare dalla paura del disonore. Si ammalarono, allora, quasi tutte di sifilide e di blenorragia. In tante, cercarono di dimenticare. Ma, come si fa a dimenticare quando il frutto della prepotenza subìta ti chiama “mamma”, e ti si stringe al collo sbaciucchiandoti?
Secondo stime affidabili, facendo una valutazione complessiva delle violenze commesse dai “goumiers”, iniziate in Sicilia e finite, forse, alle porte di Firenze, si può affermare, tuttavia, con una approssimazione credibile, che ci fu un minimo di 60mila donne stuprate, ognuna quasi sempre da più maschi. Solo nell’ottobre del ’44, quando i franchi-coloniali lasciarono l’Italia e si imbarcarono per la Provenza ancora occupata dai nazisti, alcuni degli autori dei misfatti furono puniti.
E l’Italia, per ragion di Stato, tacque!
Soltanto nel 2004, durante la celebrazione dei sessant’anni dalla battaglia di Cassino, Carlo Azeglio Ciampi nel suo discorso parlò esplicitamente di quelle violenze: “Nessuno potrà mai perdonare le violenze inflitte alle donne, ai bimbi, agli anziani di Esperia e di tanti altri paesi”.
Chi ha letto il romanzo di Alberto Moravia, La Ciociara, o chi ha avuto la possibilità di assistere alla proiezione del film di Vittorio De Sica, trasposto dal citato romanzo, ha potuto farsi un’idea di ciò che hanno subìto dai menzionati comportamenti vandalici le donne della Ciociaria, del Casertano, del Lazio di altre regioni del Centro Italia e del Nord.
Certo, ogni essere umano è capace di dare il meglio e il peggio di sé. Qualcuno potrebbe obiettare che in guerra, le narrate violenze e molte altre manifestazioni irriguardose verso la persona umana, rientrano nella normalità. La storia ne è testimone. Per capirlo, basta dare uno sguardo alle torture e alla conseguente crocifissione di Gesù Cristo da parte dei Romani, italiani a tutti gli effetti; soltanto in tempi recenti, dopo le scoperte dei morti delle Foibe, gli italiani hanno potuto dedicare loro una prece; soltanto in tempi recenti sono venute alla luce ulteriori verità su misfatti e certezze della shoah e sulle torture cui furono sottoposti gli ebrei nei campi di concentramento nazisti. Si potrebbero ricordare, anche, le distruzioni di Hiroshima e Nacasaki sotto gli effetti delle bombe atomiche americane. E tante altre conseguenze da ascrivere a guerre che dalla notte dei tempi, senza mai fermarsi, sono in atto in buona parte del mondo.
Sarà bene non dimenticare, infine, i misfatti perpetrati a danno della gente di Gerusalemme ad opera dei miliziani del Tribuno Tito, ossia: Titus Flavius Vespasianus Caesar Augustus, di dinastia Flavia, poi Imperatore (per beneficio della successione voluta dal padre Vespasiano), che nella guerra giudaica espugnò Gerusalemme riportandone un trionfo e un arco istoriato a Roma, che ancora oggi soleggia sul fronte del Colosseo da lui ultimato nell’anno ’80, alla cui inaugurazione dedicò un mese di festività. Trionfo, nato dal sangue di gente di ogni età, che per 60 anni aveva resistito alle pulsioni espansioniste dello sconfinato Impero Romano.
Non dobbiamo dimenticare, dicevo, quanto sangue ha fatto scorrere sulle colline palestinesi l’assedio della città di Gerusalemme. In una sola notte, pensate, (e ciò è avvalorato dalla testimonianza scritta di Tacito e di Giuseppe Flavio di cui di seguito riporto un suo reportage, ufficiale dell’Impero e cronista dei fatti dell’epoca, che aveva vissuto de visu l’assedio e pianto la sua famiglia, anch’essa racchiusa tra le mura della città in fiamme) al fine di accertare la presenza di diamanti, ori, e pietre preziose eventualmente nascoste nel profondo delle viscere degli sventurati, Tito aveva fatto sventrare come capretti pasquali più di 2000 giudei fuggiaschi:
“Nessuno straniero che avesse veduto l’antica Giudea e gli incantevoli sobborghi della sua capitale, e ora si fosse trovato di fronte a questa devastazione avrebbe potuto trattenere le lacrime e i lamenti per l’orrenda trasformazione. La guerra aveva cambiato tanta bellezza in un deserto. E nessuno che avesse conosciuto in precedenza questi luoghi e li rivedesse d’un tratto ora, sarebbe neppure in grado di riconoscerli. La fame, che infuriava sempre più terribilmente, distruggeva tra il popolo intere famiglie. Le terrazze erano piene di donne e bambini svenuti, le strade di cadaveri di vegliardi. Bambini e giovani, ridotti a fantasmi, si trascinavano qua e là, finché crollavano esausti. Tutti erano talmente illanguiditi che non potevano seppellire nessuno; durante le esequie, cadevano sopra i propri morti. Non appena spuntava da qualche parte anche solo l’ombra di qualcosa commestibile, immediatamente divampava una lotta furiosa per impadronirsene. Già da tempo avevano addentato cinture e scarpe. Financo il vecchio fieno divenne per molti un alimento. Perché debbo riferire eventi senza esempio in nessun’altra storia, né tra i greci, né tra i barbari. Sono cose terribili a raccontarsi ed incredibili per chi vi presta ascolto. In realtà avrei volentieri sorvolato questo orrore, per non incorrere nella taccia di aver tramandato alla posterità cose che le appariranno così disonorevoli. Ma troppi ne furono i testimoni ai miei giorni e, inoltre, il mio paese avrebbe ben poco motivo di essermi grato se avessi taciuto le miserie che a quel tempo ebbe a soffrire”.
Le considerazioni di cui sopra, sono semplici descrizioni di accadimenti bellici impressi nella storia, e non la giustificazione dei misfatti dei goumiers.
E, spesso, per la mia datata e insaziabile curiosità, ancora mi chiedo: ma la guerra, per essere tale, deve per forza uccidere? Non bastano i batteri, i virus e le tante malattie vecchie e nuove a debilitare il nostro organismo? Ad intristire i nostri sorrisi? Non potremmo trasformare la guerra in una immensa, sconfinata, pizzeria con l’obbligo di grandi abbuffate e bagni in fiumi di Aglianico, di Fiano e Greco di tufo di ultima annata?
Perdonatemi. Sono soltanto un ingenuo, inossidabile, sognatore.
Antonio Cella
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