Radici di Pietra – Diomede Patroni

Racconto storico della nota dinastia degli Scultori Patroni operativi in Italia a cavallo di due secoli

Nella metà degli anni Novanta dell’Ottocento ero un giovinetto desideroso di diventare un artista, ma proprio in quel periodo mio padre attraversò un anno pessimo che lo costrinse, pur di non far mancare il necessario a noi cinque figli e a nostra madre, di andare a lavorare nei paesi della provincia di Salerno spostandosi in treno sia nel Cilento  e sia nel Vallo di Diano. In particolare modo, dovette accettare di eseguire lavori cimiteriali che spesso amici e conoscenti gli procuravano. Così il mio papà rientrava il sabato in famigli e ripartiva prestissimo il lunedì lavorando sul posto dove gli erano stati commissionate le opere.

Nella nostra famiglia, qualche anno prima, c’era stata la disgrazia della morte della mia sorellina Stella, gemella di mio fratello Antonio. Infatti, in seguito a malattia dell’infanzia era de ceduta lasciando noi fratelli  in una grande tristezza e mia madre in un vuoto incolmabile e un dolore profondissimo che tenne in sé per tutta la vita.

Essendo io primogenito e avendo già imparato da mio padre un poco del mestiere dello scolpire, incominciai a seguirlo nei lavori fuori Salerno; tra l’altro, dopo aver completato le scuole elementari, nostro padre non potè mantenere nessuno di noi figli agli studi superiori, tranne, ma anni dopo, la più piccola di noi figli: Marietta che potè studiare più di noi altri.

Lo studio di scultura e di lavorazione dei marmi era rimasto nel cuore della città di Salerno in Corso Vittorio Emanuele, a pochi passi dalla stazione ferroviaria.

In quei tempi, intorno al 1895, ogni mattina davanti al nostro laboratorio dove io ero attivo aiutando in ogni lavoro nostro padre insieme anche a mio fratello Antonio, passava un lustrascarpe, un uomo piccolo di statura e di carattere mite e riservato, che lavorava all’ingresso della stazione ferroviaria di Salerno; con una mano portava la cassetta degli attrezzi da lavoro tipica dei cosiddetti “sciuscià” e con l’altra invece tirava, senza mai mollarla, la manina del suo bambino soprannominato, non ho mai saputo perchè, “Ghiughillo”. Ancora oggi non conosco il vero nome anagrafico del ragazzetto.

Questo bambino, sempre assonnato, bello nel viso, veniva trascinato da suo padre sempre dallo stesso braccino, sicchè quell’arto nel tempo era diventato più lungo rispetto all’altro. Il lustrascarpe, sapemmo poi dalla gente, era costretto a svegliare al mattino presto il figlioletto e a portarlo con sé perché aveva la propria moglie malata di nervi, ma non ricoverata, la quale litigava continuamente con il vicinato ma anche con lui e con il povero figlioletto al quale spesso, in momento d’ira improvvisi, tirava addosso qualunque cosa le capitasse per le mani. La sera, quando non arrivavano più treni in stazione dalla provincia e non c’era più da pulire scarpe a clienti, il pover uomo, solitamente nel tardo pomeriggio, con la schiena piegata insieme a Ghiughillo, stanchi ed entrambi affamati, d’inverno intirizziti dal freddo, si ritiravano nel loro0 basso, un “funnaco”, nel centro storico di Salerno passando sempre davanti al nosdtro laboratorio.

Come già detto, io allora ero quindicenne e aiuto di bottega di mio padre, ma già abbastanza abile da saper modellare dal vero e come il mio papà, capace nell’eseguire ritratti. Così un giorno che vidi ripassare lo sciuscià e il suo figlioletto davanti al nostro laboratorio, li fermai e, con cortesia, chiesi di far posare Ghiughillo per me poche volte, ma sempre a fine lavoro, per modellare in creta il suo volto che trovavo molto interessante per l’espressione infelice, nonostante ripeto una insolita bellezza del viso, all’apparenza malaticcia e rachitico perché sicuramente mal nutrito e troppo presto provato dalla vita. Dissi allo sciuscià che avrei compensato le sedute del ragazzetto con  qualche soldo che con questi pattuii. Fu così che immortalai nella creta il ritratto di questo piccolo personaggio salernitano ottenendo dalla creta lavorata, che poi divenne un significativo mio “pezzo” in terracotta, un ritratto espressivo e somigliantissimo.

Mio padre, orgoglioso di me, fece cuocere la creta lavorata ed espose in una vetrina all’ingresso del laboratorio questa mia opera d’arte.

Tutti i cittadini salernitani, ma anche quelli forestieri che venivano a Salerno dalla provincia, passavano davanti al nostro studio di scultura e guardavano con  ammirazione il ritratto di Ghiurghillo che era stato eseguito a grandezza naturale e la terracotta verniciata a cera, riconoscendo il personaggio dal braccio più lungo dell’altro, commentavano positivamente l’opera, tanto da diventare questo mio lavoro di gioventù motivo di pubblicità per mio padre e per la nostra bottega d’arte. Dopo tutto ciò, tra l’altro, ci furono commissionati più lavori sia in Salerno città, sia nei paesi e nelle cittadine vicine. Per me, poco più che adolescente, questo episodio fu importante, perché a prescindere dalla soddisfazione personale, confermai a me stesso le mie possibilità creative che sapevo però dover approfondire nel luogo e nel momento opportuno; solo così potevo diventare uno scultore importante, come già a quell’età aspiravo di riuscire ad essere.

Subito dopo questo avvenimento determinante del mio inizio carriera artistica, mio padre che ha sempre creduto nelle mie innate potenzialità, volle che fossi io e non lui ad eseguire il ritratto commissionatogli e da scolpire in marmo, alla sorella di Monsignor Capone, celebre prelato e storico salernitano.  Terminata questa mia prima opera in marmo ben riuscita fu collocata presso il Cimitero di Salerno a Brignano nella Congrega della Suore salernitane.

Il nostro lavoro di scultori, nonostante tutto, non era però sempre costante. C’erano giorni e talvolta mesi in cui per guadagnarsi da vivere si accettavano lavori artigianali di decorazioni in marmo o in pietra.

In quel periodo, mio padre conobbe personalmente, e fu subito apprezzato come artista, Bartolo Longo, il futuro Beato,  il quale lo inserì come coadiuvante artistico dell’imprenditore edile a cui fu affidata la costruzione del portico antistante il Santuario della Madonna del Rosario di Pompei per effettuare la decorazione sotto gli archi con rosoni modellati in stucco da applicarsi nei fornici di quel porticato che precede l’ingresso della Basilica.

Papà anche questa volta, per la messa in opera di questi lavori ornamentali fu aiutato da me, da mio fratello Antonio che in seguito a Chicago, USA, divenne un bravo e ricercato scalpellino letterista, e da un altro aiutante apprendista di nome Archimede, da noi in famiglia soprannominato il “discepolo”.

Pertanto, anche se mio padre entusiasta, in me ardeva forte il desiderio di perfezionare le mie esperienze vissute nel laboratorio paterno, volendo frequentare i corsi di scultura presso la Reggia Accademia di Belle Arti di Napoli famosa in tuta l’Europa per i celebri maestri che lì insegnavano ai propri allievi le tecniche delle arti visive per diventare a loro volta artisti.

Quindi, all’insaputa di mio padre, manifestatosi contrariato, perché si era troppo abituato ad aver giornalmente il mio aiuto, oltre che la compagnia, nei suoi lavori, provvidi con la complicità di mia madre a farmi rilasciare dal paese natìo, Bagnoli Irpino tramite mio cugine prete e anche dal Comune di Vietri sul Mare (abitavano allora nella frazione di Raito), la documentazione necessaria e richiesta dalla segreteria dell’Accademie di Belle Arti partenopea, per sottopormi agli esami di ammissione obbligatori e una volta superati, alla successiva iscrizione al primo anno di corso di Scultura.

Nel contempo, mi recai pure a Cannalonga a dove pochi anni prima con papà avevamo ultimati lavori presso la famiglia del Duca Mogrovejo la cui origine era spagnola. I Mogrovejo avevano molta stima di me e di mio padre ed erano stati anni prima buona committenti; era nata un’amicizia che è durata poi e tuttora è viva tra noi e questa antica nobile famiglia del Cilento. Essi infatti, mi ospitarono con  affetto nel palazzo ducale.

Fu così che confidai loro il mio ardente desiderio di frequentare a Napoli i corsi di scultura in Accademia. Francesco Mogrovejo mi dichiarò che aveva già commissionato a mio padre un altare votivo da farsi in  marmi policromi per la chiesa di Cannalonga. L’altare sarebbe stato dedicato al loro familiare più importante da cui discendevano i Mogrovejo perché proclamato Santo. Turibio Mogrovejo era stato Vescovo di Lima in Perù e proclamato santo anni dopo la sua morte.

Il Duca a Napoli nei pressi di rione Sanità era proprietario anche di un antico palazzo spagnolo in Vico della Calce nel quartiere Materdei. Il Duca, dopo il mio breve soggiorno a Cannalonga, qualche mese dopo mi fece sapere che avrei dovuto recarmi a Napoli e presentarmi al più presto dal portiere del loro palazzo nobiliare in una strada  adiacente a Via S. Teresa degli Scalzi. Questi avrebbe provveduto a trovarmi proprio in quell’antico e storico fabbricato  un  alloggio per studiare e dormire iniziando finalmente a frequentare i corsi nella Reggia Accademia di Belle Arti di Napoli.

Quindi, mi recai per la prima volta nella grande metropoli meridionale per conoscere questo portiere il quale  mi dichiarò subito che in sub affitto non si era potuta ottenere da parte di nessun condomino una stanza disponibile e comoda per uno studente, ma fu cortese e mi propose invece di adattarmi, se avessi voluto, usufruendo di uno stanzino posta al di sopra della sua stessa abitazione provvisto però di una piccola finestra e di un bagnetto. Mi concedeva tutto questo per sole  6 lire al mese, però dovevo provvedere a comperare a mie spese un lettino. Mi disse che a Napoli avrei potuto comperarlo al mercato dell’usato e ad un buon prezzo e  così pure un armadietto per i miei indumenti.

La mia amorevolissima mamma con notevoli sacrifici provvide a farmi un piccolo corredo e a comperare un materasso di lana che spedì da Salerno a Napoli. Seppi poi dal portiere , divenuto il mio affittuario, che il Duca Mogrovejo e i suoi fratelli tramite lui mi avrebbero fatto ricevere per sostenermi a Napoli, 20 lire al mese per tutti e quattro gli anni di frequentazione in Accademia di Belle Arti.

Mio padre, intanto, aveva eseguito anche l’altare in devozione di San Turibio per la Chiesa di Cannalonga e precedentemente alla mia determinazione di frequentare i corsi in Accademia, aveva pattuito in sole 1.000 lire l’esecuzione e messa in opera dello stesso voluto dai Mogrovejo. Essi a mio padre consegnarono però solo 500 lire, dichiarandogli che la restante somma la trattenevano per farla ricevere, invece, a me con le 20 lire al mese come aiuto economico per vivere a Napoli perché erano convinti che lì sarei diventato un artista più importante e più noto di lui. Mio padre, apprezzando la signorilità dei Mogrovejo, accettò senza replicare quanto gli fu dichiarato e gli fu dato e si ritirò a casa avendo però recuperato dal suo lavoro, purtroppo, solo le spese dei materiali senza ricavarne comunque alcun guadagno per il proprio lavoro eseguito.

Mi sottoposi agli esami obbligatori di ammissione alla Reggia Accademia di Belle Arti di Napoli e avendo superato le prove di disegno e di modellato mi potetti iscrivere al primo corso di Scultura. Nel mese di novembre del 1897 iniziai a frequentare le lezioni per tutto l’anno, lasciando per la prima volta la mia famiglia a Raito.

Iniziò così la mia vita di studente abitando in Via della Calce a Materdei, una strada con palazzi di antiche famiglie di origine spagnola e con negozi di ogni genere e anche di famose pizzerie. Ricordo il giorno della partenza per dare inizio al mio periodo partenopeo che determinò i percorsi successivi della mia vita d’artista. Quella mattina mio padre mi accompagnò alla stazione ferroviaria di Salerno e nell’abbracciarmi fortissimo a sé si commosse e pianse come non l’avevo mai visto piangere neppure quando morì la mia sorellina Stella. Lo baciai e lo ringraziai per tutto quanto aveva fatto e ancora faceva per me incoraggiandolo come meglio potevo. Partii però rattristato perché capii i due motivi del pianto di mio padre. Il primo perché perdeva il figlio primogenito che sempre e già da piccolo aveva collaborato ai suoi delicati lavori di precisione  e creativi dove occorreva, oltre  alla competenza, anche abilità, passione ed umiltà nonché pazienza. Il secondo motivo era che con lui rimaneva in laboratorio Antonio, mio fratello più piccolo di me di due anni ma con un carattere ribelle come del resto quello di mio padre e con il quale tra i due non  si andava d’accordo. Infatti, Antonio spesso disubbidiva nostro padre facendolo innervosire tanto che alla fine egli preferì rimanere solo con il suo apprendista Archimede (che, emigrato qualche anno dopo negli Stati Uniti d’America divenne un industriale per la lavorazione dei marmi facendo fortuna a Chicago).

Mio fratello preferì andare a lavorare con marmisti salernitani dove veniva pagato discretamente perché in verità era un bravo scalpellino letterista, ed esecutore di lapidi commemorative.

Le 20 lire al mese, trattenute dal compenso spettante a mio padre per l’esecuzione dell’altare a Cannalonga mi furono consegnate per volere del Duca per tutti i quattro anni della mia permanenza di studente a Napoli ma non erano assolutamente sufficienti per vivere economicamente in tranquillità e per me quegli anni furono belli ma di sofferenze, di stenti duri con indimenticabili sacrifici. Con quei pochi soldi ricordo riuscivo a fare solo una colazione al mattino, saltavo il pasto di mezzogiorno per averne solo uno caldo oppure una minestra riscaldata la sera nelle trattorie per studenti poveri della Napoli di fin e Ottocento. Dovevo comperare sempre con quei pochi soldi anche i fogli di carta da disegno, matite, carbonelle  per le esercitazioni dal vero e per la frequentazione anche nelle ore pomeridiane alla scuola del nudo e a quella di anatomia.

La moglie del portiere era gentile con me e, oltre a fare le pulizie nello stanzino da me occupato, mi faceva anche il bucato e talvolta graziosamente, mi offriva anche qualche buona tazza di caffè caldo che gradivo molto , non solo perché fatto bene alla maniera napoletana, ma perché mi riscaldava e perché non potevo permettermi a dire il vero il lusso di prenderlo nei bar come invece erano soliti frequentare i miei compagni di studi napoletani.

Il portiere era però di professione sarto e arrotondava le sue giornate lavorative di portierato cucendo nelle ore libere proprio nella sua casa ma per quieto vivere, o forse per sua scelta, o addirittura per la cultura di alcuni quartieri della Napoli di quel tempo, era amico di camorristi del rione Sanità ed io non avevo avuto modo di scoprirlo subito. In verità, per me era un uomo d’animo buono.

Dalle prime lezioni in Accademia mi appassionai molto allo studio dell’anatomia umana. Vicino alla sede dell’Accademia frequentavo l’Ospedale degli Incurabili a pochi passi, appunto, da Via S. Maria di Costantinopoli. Le lezioni erano tenute da un illustre chirurgo napoletano, tale Prof. Laccetti, molto seguite ed interessanti e noi studenti lo seguivamo con passione nelle sue affascinanti spiegazioni. Succedeva che quando spiegava “pezzi” anatomici servendosi di cadaveri mutilati o sezionati, molti studenti non reggevano e si allontanavano spontaneamente dall’aula di anatomia; spesso, alcuni davano di stomaco o si sentivano male. Io per fortuna, non ebbi mai di questi problemi.

Imparai a mantenermi giornalmente solo con un panino ed un caffè che pagavo 2 soldi. La serra cenavo come già detto in osterie economiche frequentate da studenti poveri come me e da operai, manovali e garzoni di negozi. Quando capitava consumavo un piatto di pasta asciutta con  un pezzetto di carne ed un panino pagando solo 12 soldi, però a fine settimana eravamo tenuti a lasciare al cameriere che ci serviva 2 soldi come mancia. Capitava anche che durante il mese non potevo andare a mangiare, perché il denaro che mi era rimasto non era sufficiente per pagarmi il pasto. Preferivo non nutrirmi sufficientemente pur di non farmi mancare l’occorrente per disegnare e per dipingere, almeno l’essenziale, perché noi studenti del corso di Scultura avevamo gratuitamente dallo Stato a disposizione solo creta per modellare e gesso per formare le opere eseguite nelle nostre esercitazioni scolastiche.

Nei pomeriggi, dopo le ore trascorse in Accademia, mi recavo talvolta alla Biblioteca Nazionale di Napoli per leggere libri di Storia dell’Arte o altri specifici nel campo della scultura. Altre volte, andavo a sentire conferenze di arte o anche di letteratura per cercare in tal modo di acculturarmi. A Napoli, città antica di arte, di storia e di cultura,  le occasioni erano tante.

Alla fine del secondo anno accademico, partecipai pure ad un concorso di pittura sul tema del paesaggio superandolo e ottenendo un discreto premio in denaro che per me rappresentò non solo una bella soddisfazione personale ma anche e forse soprattutto un aiuto per le mie necessità quotidiane.

Dino Vincenzo Patroni

(da Fuori dalla Rete novembre 2024, anno XVIII, n. 3)

 

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