Sanità, scuola e coronavirus

di Luciano Arciuolo

In questi giorni, così difficili per il nostro Paese, credo che, anzitutto, vada rivolto un grazie grandissimo a quanti operano nella Sanità. La foto dell’infermiera Elena che dorme appoggiata ad una scrivania, spossata da turni massacranti, ha fatto il giro del mondo ed è il simbolo del sacrificio di tante donne e tanti uomini, nei nostri ospedali. E se qualche leader può permettersi di dire (sbagliando) che il nostro sistema sanitario è il “migliore del mondo” non è certo per merito della politica, ma solo delle persone che lavorano nelle nostre strutture.  Negli ultimi anni, infatti, le scelte politiche hanno imposto alla Sanità solo tagli. Nel 2019 lo Stato ha speso, per il settore, circa 30 miliardi di euro in meno di quanto aveva speso nel 2011. Un taglio enorme. Così, ad esempio, in Provincia di Cosenza, ci sono oggi solo 5 posti letto attrezzati per la respirazione assistita in rianimazione. 5 posti letto per 200.000 abitanti! Come si affronterebbe, a Cosenza, un’eventuale emergenza Coronavirus?

La Scuola: nel 2018 lo Stato ha speso per l’Istruzione circa 66 miliardi di euro (nel 2009 la stessa spesa era stata di 72 miliardi di euro). Nello stesso 2018 la spesa per gli interessi sul nostro debito pubblico è stata di circa 65 miliardi di euro. L’Italia, quindi, spende per la Scuola meno di quanto spendeva 10 anni fa, ma, soprattutto, deve fare a meno della stessa cifra per il costo dei propri debiti.

Una parentesi: è interessante andare a vedere quando questo debito è diventato così enorme, al limite della sostenibilità. E’ successo negli anni “80 del secolo scorso, quando il debito stesso è passato dal 50% della ricchezza prodotta dagli italiani in un anno (il famigerato PIL) al 100% della stessa. Già: gli anni “80, quelli della “Milano da bere”, ma anche quelli dell’assalto alle casse pubbliche, da parte di una politica clientelare che non ha prodotto, qui da noi, niente di duraturo, se è vero che le nostre zone si stanno spopolando, avviandosi a diventare un deserto. Eppure qualche “professore” di quell’epoca pretende ancora di dare lezioni e di pontificare…

Basta: voglio parlare della Scuola, per la quale l’Italia investe molto meno di quanto fanno gli altri paesi europei: il 3,8% del PIL, contro una media del 4,8%. Gli effetti di questo disinvestimento si vedono tutti. Non parlo dei risultati delle prove INVALSI (anche perché quei risultati sono poi smentiti ogni volta che uno studente formato in Italia raggiunge, all’estero, posti di prestigio). Parlo piuttosto dell’abbandono scolastico, che raggiunge cifre da capogiro, soprattutto al Sud. O del fatto che le nostre scuole sono prive di laboratori e attrezzature adeguate (e ce ne stiamo accorgendo particolarmente in questo periodo); che gli edifici scolastici sono molto spesso inadeguati, se non pericolosamente fatiscenti. Parlo dell’età media troppo alta dei docenti. O della loro scarsa attività di formazione e aggiornamento.

Parlo del futuro, perché è evidente che ogni euro investito nella Scuola è un investimento sul futuro: quello dei nostri bambini, dei nostri ragazzi, della nostra stessa nazione.

Da questo punto di vista la proposta di aumentare fino a 18 anni l’obbligo scolastico è da ritenere senz’altro positiva, perché colma una lacuna del nostro sistema formativo e ci pone allo stesso livello, ad esempio, di Olanda e Germania. Così come è da accogliere positivamente l’altra iniziativa, quella di rendere obbligatoria la Scuola dell’Infanzia.

Le due proposte sono da condividere perché rappresentano una inversione di tendenza, nell’investimento statale sulla Scuola. Un investimento di qualità, non nell’ottica  “aziendale”, propria della cosiddetta “Buona Scuola” di renziana memoria, che tanti danni ha prodotto negli ultimi anni.

Quando, assieme ad esse, si affronterà in maniera decente anche il discorso sulla   selezione e sulla formazione dei docenti, avremo fatto un bel passo avanti verso il futuro.

Resta il fatto che queste proposte rischiano di restare lettera morta, senza finanziamenti adeguati. Le nozze, lo sappiamo bene, non si fanno coi fichi secchi o, addirittura, con i tagli.

Anche per la Scuola vale, cioè, un discorso analogo a quello fatto per la Sanità. Se essa si è attrezzata per ovviare alla chiusura forzata di queste settimane è solo grazie alla buona volontà di chi ci lavora e non certo della politica. Se mancano le strutture per svolgere in maniera adeguata la didattica a distanza non è certo per colpa dei docenti. A loro merito va dunque tutto quello che, da Roma in giù, la Scuola riesce a fare in questi giorni.

Luciano Arciuolo

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