Volevo scrivere di miti, di quel meccanismo che si innesca nella costruzione e conseguente proiezione di noi negli idoli, della osmosi che si produce che rasenta l’identificazione in questi semidei, che con la morte di Maradona ha raggiunto quei picchi di intensità e condivisione assai rari, come accadde quarant’anni fa per Lennon per esempio; avrei voluto scrivere della reazione oppositiva del mondo dinanzi alla pandemia, diviso tra chi rivendica libertà assolute e chi ha come prerogativa la salute pubblica, e non solo la propria dunque.
Ero dunque indirizzato verso l’uno o l’altro tema, fino a quando mi si è rotto lo smartphone. Giustamente ora penserete, e lo penserei anche io, cosa c’entra lo smartphone con questo? Apparentemente nulla, fino a quando non ho realizzato, dopo il quinto giorno trascorso in forzata assenza della vitale tecnologia, che quel tempo di privazione andava analizzato, esaminato, narrato.
La tecnologia rende il vissuto più agevole, comodo, stimolante, ricco. La stessa tecnologia, se da un lato dona, dall’altro, se usata in maniera smisurata e invadente, può pericolosamente togliere e, se accade, quel che toglie è di gran lunga più importante di quel che elargisce.
Sono bastati pochi giorni per confermare ciò che in realtà già sapevo ma che, come accade spesso alle persone che aderiscono ad un sistema di strumenti, mezzi, tempi e abitudini che si consolidano per ripetitività e contagio, avevo dismesso dalla lista delle cattive abitudini. L’overdose tecnologica nella quale siamo calati è arrivata al punto pericoloso di non ritorno di togliere più di quanto non dia realmente.
La reazione di privazione iniziale equivale grossomodo alla sottrazione di droga ad un eroinomane: l’uomo ipertecnologico reagisce con smarrimento e disorientamento, l’abitudine del gesto e degli effetti l’hanno reso prigioniero, dipendente, ingabbiato. Mediamente una persona tocca il proprio smartphone più di 2500 volte al giorno, lo guarda più di 150 volte, ogni 7 minuti circa. Una sbornia quotidiana e continuata di tempo e attenzioni che si rivolgono alla nostra protesi, al nostro innaturale prolungamento materiale e immateriale del corpo: veniamo al mondo con due gambe, due orecchie, due occhi, due mani e uno smartphone.
A conti fatti guardiamo più volte la nostra rettangolare protesi fisica che la nostra amata, nostra madre, i nostri amici e noi stessi allo specchio. Cosa dà? Cosa perdiamo? Cosa fa lo vediamo, lo sappiamo, lo facciamo, ed è stupefacente, davvero grandioso. Comunicare con chiunque, ovunque, gratuitamente e istantaneamente, condividere qualsiasi cosa, sapere qualsiasi cosa, poter fare quasi qualsiasi cosa. Accade però che, potendo fare ed essere tutto, finiamo col fare ed essere nulla. Cosa perdiamo? Beh, bisogna perderlo per saperlo. Come ogni oggetto posseduto ha la potenzialità paradossale di possederci, in questo caso però la possessione è pervadente, prorompente. Dopo il mio iniziale spaesamento, ho iniziato a saper godere della assenza, fino a percepirla come autentica liberazione.
Oramai allo smartphone è delegata una buona dose di abilità cognitive, si può definire il nostro cervello portatile, deputato quasi a pensare per noi, sollevando dagli sforzi il nostro naturale. Un cervello a portata di mano, il sapere è lì sempre fruibile istantaneamente, inutile impararlo. Pensiamo alla memoria, a quanto poco è impegnata rispetto al periodo precedente alla digitalizzazione, così senza non sappiamo nulla, ma la nostra è ignoranza dovuta. Strumento di sapere, è strumento di evasione e distrazione: molti lo usano per sfuggire alle situazioni di disagio e imbarazzo, rifugiandosi in esso. Puoi incontrare molte persone che vivono con imbarazzo le situazioni di presenza, che senza la protesi cerebrale digitale palesano seri impedimenti di socializzazione. Stiamo allevando una generazione digitalmente fenomenale e socialmente incapace, anche quando la socialità si realizza: lì in realtà l’alienazione avviene comunque, connessi con tutto il mondo tranne con chi ci sta accanto.
Quando poi si dovrebbe godere di posti incantevoli o momenti meravigliosi, solitamente questi vengono dispersi per catturarli con foto, vissuti affannosamente al solo scopo dimostrativo, condividendo la nostra non-esperienza col mondo intero, con tutti tranne che con noi stessi o i presenti. La sottrazione di questi attimi risulta drammaticamente compromessa e segnata. Le grandi riflessioni sull’esistenza, sul senso delle cose, sulla morte e sulla conoscenza vengono, se sfiorate, quasi immediatamente eluse: senza accorgercene, lentamente, stiamo regredendo in esseri sempre meno pensanti, o pensanti delle sole frivolezze che abitano i mondi social-virtuali.
Non siamo mai soli, anche se fisicamente non lo siamo mai stati tanto, perennemente connessi perdiamo tutto il beneficio del rimanere da soli con noi stessi, ci conosciamo sempre di meno, ci interroghiamo introspettivamente ancor meno.
Il mio auspicio per questi giorni di festa? Che il vostro smartphone vi possa abbandonare per qualche giorno, così da liberarvi e far crollare questa barriera che sempre più ci allontana dalla realtà, così da poter godere pienamente e nuovamente del presente, e almeno per un po’ delle situazioni, delle emozioni, delle persone, delle sensazioni, dei momenti.
Alejandro Di Giovanni
(da Fuori dalla Rete, Dicembre 2020, anno XIV, n. 6)
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