Tragiche storie di internati militari bagnolesi

di Antonio Camuso

L’8 settembre del 1943, giorno dell’annuncio ufficiale dell’armistizio tra l’Italia e le nazioni Alleate contro L’Asse, è una data rimasta indelebile nelle menti e nei cuori dei superstiti degli oltre 700.000 militari italiani che per cause conseguenti a esso finirono nei lager tedeschi, prima come prigionieri di guerra “anomali” e poi come internati militari (IMI). Un ricordo inciso con le lacrime di madri, sorelle, mogli, fidanzate che inutilmente aspettarono il ritorno dei loro cari da quella prigionia. Un numero spaventoso di quasi 50.000 nostri soldati prigionieri dei tedeschi che per molteplici cause non ritornarono in Patria: malattie, malnutrizione, il freddo, la durezza e pericolosità del lavoro coatto, le esecuzioni capitali all’interno dei campi, i bombardamenti alleati sulle fabbriche belliche dove gli internati lavoravano e sulle citta dove prestavano servizio antincendio o rimuovendo macerie dalle strade.

A questo doloroso elenco andrebbero aggiunte le migliaia di soldati italiani fatti prigionieri dai tedeschi nelle isole greche e che tragicamente morirono a causa dell’affondamento delle navi-prigione per mano di aerei, navi e sommergibili alleati.

Non per ultimo vanno ricordati i caduti e i massacrati in violazione di tutte le leggi di guerra, a Lero, Kos, Cefalonia e altri luoghi ove con le armi si erano opposti alla resa ai tedeschi. E infine, coloro che, sfuggiti alla prigionia (Albania, Grecia , Yugoslavia, ecc.), si unirono alle forze partigiane di quei luoghi, combattendo e morendo al loro fianco.

Di quegli oltre 700.000 militari catturati, ben il 90 per cento, oltre 600.000, preferì rimanere a soffrire e morire nei lager tedeschi, rifiutandosi di aderire alla Repubblica di Salò, nonostante le lusinghe delle delegazioni fasciste che assicuravano il loro ritorno immediato in Italia, vitto, alloggio e paghe favolose se avessero giurato fedeltà a Mussolini. La storiografia attuale assimila questi eroi-martiri alla stregua dei partigiani che in Italia combatterono nella Resistenza.

In tal senso il sottoscritto, in occasione dell’80° dell’inizio della lotta di Liberazione al Nazifascismo, ha prodotto questo modesto scritto, su alcuni sconosciuti ma eroici bagnolesi che vissero l’esperienza di Internato Militare in Germania. E’ , quindi, questo lavoro da intendere quale naturale prosecuzione del mio precedente scritto sui partigiani originari di Bagnoli Irpino. E’ da lodare la pregevole iniziativa svoltasi il 30 novembre 2023 a Bagnoli, con la presentazione del libro “Internati militari italiani, testimonianze di internati di Nusco” a cura di Filomena Marino, ed organizzata dal circolo Idee per la sinistra E . Frasca.

Mi auguro che altri, più giovani e competenti del sottoscritto vogliano approfondire questo argomento, che ha direttamente o indirettamente segnato la vita politica e sociale di Bagnoli Irpino nella seconda meta del Novecento.

Nel dopoguerra, l’orrore, o meglio gli orrori, vissuti dagli IMI superstiti, ritornati in patria e considerati quasi una vergogna per essersi arresi l’8 settembre, si trasformo in amarezza e delusione, facendo sì che in tanti preferirono non parlare di quella esperienza a figli, mogli e madri, mantenendo nel proprio intimo, quella lenta agonia, quel vivere da non-umani di quei 18 mesi di prigionia, tra fame, pidocchi, freddo e malattie, punizioni corporali e umiliazioni continue, la visione di compagni torturati o ammazzati perché avevano provato a ribellarsi, o semplicemente rubare una patata o un panino. Nonostante la felicita di esser ritornati finalmente a casa tra il calore degli affetti più cari, nelle notti d’inverno, dinanzi un focolare, in tanti assaliva il rimorso per non aver ceduto all’amico di branda stremato dalla fame, qualche briciola di pane o uno straccio di coperta.

Nel mio lavoro di ricercatore storico presso l’ANPI di Brindisi ho raccolto decine d’interviste di internati militari e i loro racconti, salvo poche differenze sembravano esser stati scritti in un unico copione, confermando la disumanizzazione a loro imposta dal regime concentrazionario, la bestiale sofferenza subì ta fosse scientificamente organizzata alla stessa stregua dei campi di sterminio dell’Olocausto. In tutti quei racconti l’elemento comune era la fame, ancor prima del freddo, che portava a cercare bucce di patate e rape nelle immondizie, o cacciare piccoli animali co-me topi, rane e lumache per integrare le magre razioni.

Storie di internati bagnolesi

Nella scorsa primavera durante le mie ricerche nell’Archivio di Stato di Avellino sui partigiani irpini, tra i fogli matricolari, ho costatato l’enorme numero di militari della nostra provincia che, catturati dai tedeschi l’8 settembre, finirono nei campi di concentramento. In quei fogli, pur nella stringata terminologia della burocrazia militare, trasparivano tragiche storie di giovanissimi deceduti in prigionia, e tra essi coloro di cui non rimase neppure traccia di una sepoltura ove una madre potesse versare una lacrima. In questo mio scritto voglio far cenno di alcuni di questi Bagnolesi e delle cause per le quali non ritornarono.

Rimpatrio e ricovero in ospedale militare decedeva per malattia

Nigro Aniello nato a Bagnoli Irpino, di Antonio e Di Capua Rachele, all’atto della visita di leva risultava essere un giovane contadino, abituato alla rude vita dei campi dove il sole gli aveva abbronzato la pelle e contribuito ad avere una dentatura sana nonostante la frugale alimentazione. Il 28 settembre 1942, il Distretto di Avellino lo collocava “in attesa alla chiamata alle armi” che puntualmente arrivava il 24 maggio 1943. Erano quelli i giorni in cui terminava la nostra disastrosa avventura in Africa, con la resa del generale Messe agli angloamericani in Tunisia, da lì a poco, l’invasione della Sicilia, il 25 luglio, la caduta del Fascismo, l’arresto di Mussolini e il Re che affidava a Badoglio l’incarico da capo di Governo.

“La guerra continua” fu l’annuncio ufficiale, ma segretamente si trattava per l’Armistizio. Nel frattempo la giovane recluta Aniello, 19 anni appena compiuti, nato a fine marzo 1924, giungeva con la cartolina rosa in mano al deposito del 23° Reggimento fanteria, 1° Battaglione, III compagnia, presso Gorizia, dopo aver viaggiato, unica consolazione, insieme ad un altro ragazzo bagnolese suo omonimo, Nigro Francesco. Il periodo di addestramento, si protrasse, forse per le esigenze del comando della piazza di Gorizia di avere maggiori risorse per affiancare le unità che controbattevano la guerriglia dei partigiani sloveni. In tal senso possiamo comprendere come mai i due Bagnolesi, non abbiano raggiunto il resto del 23° reggimento che era stato dislocato al Sud da pochi mesi.

Una situazione che si ribalto l’8 settembre, con quella che fu chiamata la “battaglia di Gorizia” che impegnò unita italiane e partigiane a resistere ai tedeschi, in una caotica confusione di ruoli, dove alcuni reparti dovettero fronteggiare i partigiani slavi che volevano impossessarsi delle armi, e i tedeschi che li volevano prigionieri. In questo caos va ascrivibile l’annotazione sul foglio matricolare di Nigro Aniello: “catturato in data imprecisata, dopo i fatti dell’8 settembre”, mentre è certa quella del suo rientro in Italia, 10 mesi dopo, l’11 luglio 1944, inserito nella lista di uno striminzito numero di Internati militari Italiani, gravemente ammalati e non utilizzabili dal Reich come schiavi-lavoratori forzati. “Rimpatriato dalla Germania e ricoverato all’ospedale militare in Bergamo”

Un consenso concesso da Hitler su insistenza di Mussolini, che voleva millantare presso l’opinione pubblica italiana, come il Duce si adoperasse benevolmente nei confronti degli IMI. Illusione presto svanita e il flusso di militari ammalati verso gli ospedali militari, presto esaurito, perché impedito da ragioni di carattere politico: ognuno di essi portava con se la testimonianza della ferocia e del disprezzo dei tedeschi contro gli italiani “traditori” e Mussolini preferì chiudere questa partita per non acuire i rapporti con l’esercito occupante che gli garantiva la sicurezza personale e dei gerarchi rimastigli fedeli. Purtroppo la durissima vita e gli stenti e le malattie avevano minato il pur forte fisico di Aniello, che inizialmente ricoverato presso l’Ospedale militare di Bergamo fu trasferito l’11 novembre 1944 a quello di Gallarate (Milano) e un mese dopo si doveva registrare il suo decesso. Deceduto per “malattia contratta in Germania”. A portare la notizia ai familiari furono i Reali Carabinieri di Bagnoli Irpino.

Rimpatriato dalla prigionia

Più fortunato fu Nigro Francesco “di Francesco e Gatta Lucia” anche lui contadino e analfabeta (sulle motivazioni dell’alto tasso di analfabetismo a Bagnoli, vedasi miei precedenti articoli pubblicati per Fuori dalla Rete). A differenza di Nigro Aniello, data e luogo di cattura per il suo compaesano e commilitone sono riportati sul foglio matricolare. “Prigioniero di guerra in Gorizia a seguito degli eventi dell’8 settembre”. Catturato dopo l’8 settembre, il foglio matricolare annota che Francesco fu registrato presso lo Stalag IV D nei pressi di Berlino, oltre un mese dopo, il 14 novembre 1943. In questa annotazione vi e una incongruenza significativa, ma che non stupisce i ricercatori quando “annusano” tra i fogli matricolari. Nell’elenco dei campi di concentramento per militari lo Stalag IV D aveva sede a Torgau, qualche centinaio di chilometri da Berlino, mentre Berlino ospitava lo Stalag III D e sede del comando centrale degli Stalag. In ogni caso Nigro Francesco riuscì a sopravvivere agli stenti del Lager e ai bombardamenti alleati, poiché gran parte dei prigionieri di guerra di entrambi gli Stalag furono impiegati come lavoratori-schiavi, nelle industrie belliche di entrambe le località e nel lavoro di ripristino di strade e piste di aeroporti, tutte costantemente sotto attacco dei bombardieri diurni e notturni Angloamericani e poi anche dei russi. Da questi ultimi, dopo la caduta di Berlino, fu sfortunatamente preso in consegna, e per questo vide i tempi di definitiva liberazione e rimpatrio allungarsi, come narrano tutti gli ex prigionieri italiani ospitati nei campi tedeschi e caduti nelle mani dell’armata Rossa nella sua avanzata verso Ovest. Nigro Francesco dovette attendere molti mesi, anche lì patendo fame e freddo, prima di essere consegnato agli americani e poi rimpatriato, via Bolzano e giungere nella sua Bagnoli, il 6 ottobre 1945, con l’ingiunzione di presentarsi immediatamente ai carabinieri e di seguito al distretto militare di Avellino.

Una leva infinita

Potrebbe sembrare una paradossale presa in giro, eppure e la prassi che fu seguita per tutti i giovani di leva presi prigionieri l’8 settembre e presentatisi al Distretto di competenza: “Tale inviato in licenza straordinaria senza assegni di cui i primi 60 gg di rimpatrio con assegni (circolare min. 40039/25 del 19/6/45). In data 6 ottobre 1945 una disposizione Ministeriale che sospendeva ma non annullava l’ obbligo di leva interrotto al momento della prigionia e, nonostante i 18 mesi nel lager, il soggetto, se richiamato, avrebbe dovuto far ripartire il conteggio della leva da quell’8 settembre 1943. Fortunatamente riduzioni di organici e di spese militari, fecero sì che ben tre anni dopo Nigro Francesco fu “dispensato” dal compiere la ferma di leva e collocato in congedo illimitato ai sensi della circolare min. 40001/46 del 4/7/1948.

Disperso in prigionia
Destino ben più tragico quello di Patrone Angelo, di Lorenzo e Patrone Maria, nato l’11 maggio 1924 e quindi il più giovane dei tre casi esaminati. Contadino e sorprendentemente con licenza elementare conseguita, fu sfortunatamente chiamato alle armi il 30 agosto 1943, mentre feroci bombardamenti colpivano la Campania insieme al tutto il Meridione quale preavviso dello sbarco imminente a Salerno. Una sola settimana di ritardo postale per la cartolina rosa, e il suo destino sarebbe cambiato e forse i suoi figli e nipoti, l’anno prossimo avrebbero potuto festeggiare il suo centesimo compleanno. Il 30 agosto 43 ritrova il nostro Patrone Angelo nel Deposito del 235° Reggimento a Bressanone in provincia di Bolzano. Catturato l’8 settembre, fu deportato nello Stalag VIII A, presso Gorlitz, allora territorio tedesco, oggi in Polonia e sede di un campo di concentramento di prigionieri di guerra di molte nazionalità, in cui le condizioni durissime della prigionia erano aggravate dal clima rigido. Durante le frequenti perquisizioni i prigionieri erano costretti a stare fuori per ore, anche sotto il gelo. Come con la maggior parte dei Stalag, la preparazione del cibo era comunemente limitata all’ebollizione una serie di ingredienti in zuppa e patate al cartoccio, che erano solitamente servite una o due volte la settimana.
E come per gli altri Stalag i prigionieri di guerra furono costretti a contribuire alla economia germanica, lavorando nei campi e in fabbrica (Arbeitskommando). Una condizione da schiavi, cui ogni errore era pagato con punizioni severissime o semplicemente non ritornavi dal lavoro, perché morto di freddo ed abbandonato tra la neve dalle SS o semplicemente, impazzito, avevi provato a fuggire tra i boschi gelati e sbranato da torme di lupi. Gorlitz fu liberato dai russi nella loro avanzata nel febbraio del 1945, ma ormai di Patrone Angelo se ne erano perse le tracce.

“Disperso a seguito degli avvenimenti bellici svoltisi in Germania, 18 giugno 1944, con dichiarazione di irreperibilità al distretto di Militare di Avellino il 30 luglio 1946.” Annotazione, questa definitiva che annullava la precedente, segno evidente del caos presente nei Distretti Militari, che cercavano di ricostruire le tappe di vita militare di alcuni milioni di italiani. L’annotazione precedente, del 31 maggio 1946, poi depennata, dava Patrone Angelo “disperso a Bressanone“ e che aveva provocato l’intimazione “da Rifare!” del capo ufficio all’impiegato incaricato. Per i famigliari di Patrone, a cui era negato di piangere su una tomba, iniziava una lunga trafila burocratica, che vedeva la comunicazione alla famiglia di concessione di pensione di guerra, il 27 gennaio 1950, per concludersi con l’approvazione del Ministero del Tesoro il 30-9-1950.

Antonio Camuso-Archivio storico Benedetto Petrone

(da Fuori dalla Rete Dicembre 2023, anno XVII, n. 3)

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